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La crisi «taglia» 9mila dirigenti
L'emergenza occupazione - L'anno scorso oltre 6mila manager hanno perduto il posto nell'industria e quasi 3mila nei servizi
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MILANO - Cinquant'anni di età, uno stipendio superiore alla media, un lavoro in una grande industria del Nord-Ovest. Poche, scarne coordinate, ma sufficienti a tracciare l'identikit del dirigente a rischio. Nel 2002 oltre seimila manager dell'industria hanno perso il posto di lavoro, 2.700 nel terziario. E ora il fenomeno preme alle porte del sistema bancario. È la conseguenza di ristrutturazioni, fusioni, crisi aziendali scoppiate dopo due anni di rallentamento dell'economia, e anche della delocalizzazione. In sordina, le imprese hanno cominciato a comprimere gli organici bloccando il turnover, poi dando mano le forbici per recuperare efficienza. Così, quasi novemila dirigenti si sono trasformati nel volgere di un anno in "quantità eccedente", parola soft ed elegante per definire gli esuberi. Allarme industria. Nell'industria il sismografo ha ballato parecchio nel corso del 2002 e lo farà ancora quest'anno. Qui la bolla è scoppiata da mesi ma ha subìto un'improvvisa accelerazione con la crisi della Fiat, 350 manager espulsi negli ultimi mesi e un gruppo cospicuo di dirigenti a rischio in tutto l'indotto. Un'indagine appena giunta sul tavolo dei responsabili di Federmanager, il sindacato dei dirigenti industriali, parla di 180 licenziamenti negli ultimi sei mesi nella sola area di Torino, 193 in tutto il Piemonte. Ma i numeri - afferma Giorgio Amborgioni, condirettore di Federmanager - vanno moltiplicati per due, perché le sedi regionali della federazione sono in grado di monitorare soltanto il 50% delle risoluzioni di rapporti di lavoro. Dunque, nella regione i licenziamenti sarebbero stati 400 nel periodo agosto-dicembre 2002: 800 in tutto l'anno. A livello nazionale, 62 uffici regionali di Federmanager hanno conteggiato 1.505 licenziamenti nel secondo semestre 2002: fatti tutti i calcoli, in un anno i dirigenti espulsi dal sistema industriale sono oltre 6mila, circa il 7,3% degli 82mila manager attualmente assunti nelle industrie. Se Torino soffre, a Milano non va meglio. Anzi, qui i licenziamenti sono stati 743 mentre Roma ne contabilizza 142 e Bologna 60. In Lombardia (dove l'età media dei manager espulsi è sempre più bassa) e nel Lazio l'onda d'urto della bolla della new economy non si è ancora esaurita e a tagliare non sono solo le società legate a Internet e all'informatica, ma anche quelle di telecomunicazioni o comunque vicine a questo business. Telecom, Pirelli, Abb, Siemens, Alsthom, Enel hanno cominciato a sfoltire il personale di vertice. Le vicende societarie legate a Blu e a Ipse hanno avuto effetti diretti sull'occupazione dei dirigenti, così come l'integrazione di Infostrada in Wind. Al Sud le disavventure della Cirio rischiano di ripercuotersi sulle industrie conserviere (in Campania almeno cinque lavorano per conto della società di Sergio Cagnotti). L'indagine di Federmanager evidenzia come il 50% delle risoluzioni di rapporti di lavoro dirigenziali sia effetto di ristrutturazioni, il 20% dell'eliminazione di posizioni manageriali, una percentuale analoga avviene per cessione di azienda o di rami di azienda e soltanto il 10% per scelte individuali del dirigente. «Dal punto di vista dell'occupazione lo scenario industriale appare in forti difficoltà - sottolinea Paolo Citterio, presidente dell'Associazione direttori risorse umane Gidp Hrda, che raggruppa i responsabili del personale delle maggiori imprese italiane -. Spesso lo show down è necessario anche per ridurre i costi. Si mandano a casa dirigenti tra i 50 e 60 anni con retribuzioni elevate e una quota di stipendio variabile del 10-15% e si assumono giovani con retribuzioni inferiori e un variabile del 25-30%. Senza contare che chi ha studiato ingegneria negli anni 60 oggi è obsoleto, mentre i giovani sono in grado di portare conoscenze nuove e più aggiornate». Nel complesso, comunque, le stime di Federmanager parlano di circa 6.800 nuove nomine nel 2002 e, dunque, il numero totale dei dirigenti industriali in Italia resta stabile a quota 82mila. Le cause. Vincenzo Perrone, docente di organizzazione aziendale e direttore dell'Istituto di organizzazione e sistemi informativi all'Università Bocconi di Milano, va dritto al sodo per spiegare come mai il termine esubero si affianchi sempre più frequentemente ai dirigenti industriali. «C'è sicuramente una situazione generale di crisi che colpisce tutti i comparti - dice - ma c'è anche una tendenza alla riduzione del peso relativo dell'industria rispetto agli altri settori: le grandi imprese da anni riducono il personale, le medie delocalizzano, spostano impianti all'estero. Tra pochi anni nascerà una classe dirigente di espatriati, fatta di italiani che non lavoreranno nel loro Paese». Ma non è tutto. Ci sono anche altri fattori che aggravano le conseguenze di questi cambiamenti strutturali. La riorganizzazione e l'accorciamento della piramide organizzativa, in primo luogo. E poi la necessità di recuperare efficienza. «La separazione tra chi decide e chi produce - rileva Perrone - è molto costosa per le industrie. Ecco, dunque, che si riducono i livelli gerarchici nelle imprese e si concede sempre più autonomia ai livelli inferiori, operai e impiegati, che premono verso l'alto sottraendo spazio ai dirigenti». Non c'è dubbio: è questa una delle cause che rischiano di mettere in crisi i dirigenti italiani: la responsabilizzazione di personale che una volta era chiamato soltanto a eseguire e non a pensare. Tute blu e colletti bianchi, paradossalmente, stanno avendo la meglio sui loro antichi avversari. Le banche. Dall'industria questa rivoluzione Copernicana si sta diffondendo per osmosi anche all'interno delle banche, come sottolinea Vito Gioia, partner della società di cacciatori di teste Asa Executive Search: «Qui i numeri rischiano di essere molto alti. Si parla di 30mila esuberi complessivi e circa il 10% di questi saranno dirigenti. Le megafusioni degli ultimi anni hanno portato a duplicazioni e a volte anche a triplicazioni di ruoli. E le imprese bancarie, oggi, vogliono porre fine a questa situazione». Un fenomeno che attraversa tutti i grandi gruppi come Banca Intesa, Unicredito, Imi-Sanpaolo, Mps, ma anche realtà come le popolari di Lodi, di Bergamo e di Verona. Il terziario. Tra i 19mila dirigenti del terziario gli umori sono più sereni. Gli effetti della new economy si sono abbattuti con violenza sul settore, ma oggi la tempesta è quasi del tutto passata, anche se il numero dei manager è cresciuto lo scorso anno soltanto del 3,4% rispetto al 10% del 2000. «La prima parte del 2002 ha registrato una calma piatta - racconta Enrico Perdetti, direttore marketing della Fendac, la federazione che riunisce i manager del terziario -, poi da maggio c'è stata la ripresa». La crisi Fiat farà sicuramente sentire i suoi effetti su alcune imprese di logistica e di trasporti, ma in tutto il Paese il ricorso all'outsourcing darà ossigeno al settore. E poi ci sono il lavoro in affitto, la distribuzione, il non profit, il franchising e il turismo. A soffrire restano le società legate a Internet e soprattutto quelle della pubblicità. Centri media e agenzie sono nel pieno di una cura dimagrante e gli effetti della crisi del mercato pubblicitario si trasmettono anche al mondo dell'editoria, dove grandi e piccoli gruppi sfoltiranno ancora di più quest'anno gli organici manageriali. La sfida. Uno scenario non certamente roseo per i dirigenti italiani. «La sfida - commenta Giorgio Caire, amministratore delegato della società di consulenza Consulnet - sarà di ritagliarsi un nuovo ruolo che parta dalla consapevolezza dei grandi cambiamenti avvenuti. I manager dovranno prestare più attenzione alla formazione e pensare di più alle proprie competenze al di là dell'incarico formale che ricoprono in azienda». ANGELO MINCUZZI a.mincuzzi@ilsole24ore.com
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