27/3/2002 ore: 12:06

Il messaggio di guerra lanciato dal premier - di Massimo Giannini

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IL MESSAGGIO DI GUERRA DEL PREMIER
 
 
 
MASSIMO GIANNINI

«Piazze e pistole non ci fermeranno». Silvio Berlusconi ha scelto un modo originale, per ricucire il gravissimo strappo che si è aperto con Cgil, Cisl e Uil sul terrorismo e l´articolo 18. Doveva stemperare le polemiche, cercando di riprendere uno spiraglio al dialogo sulla riforma del mercato del lavoro. Doveva recidere una volta per tutte quel sottile e irresponsabile filo rosso che lui stesso, insieme ai suoi ministri Bossi e Martino, aveva teso in questi giorni tra le manifestazioni del sindacato e il piombo delle Br. Aveva organizzato un vertice di maggioranza, per correggere il tiro e definire i dettagli dell´operazione. Aveva una cornice istituzionale autorevole e forte, nella quale inquadrare un´iniziativa politica ferma e coerente nei contenuti, ma finalmente rispettosa e distesa e nei toni. Gliel´aveva offerta il capo dello Stato, per l´ennesima volta, invitando «la maggioranza a governare nella dialettica e nel rispetto delle opposizioni».
Con una conferenza stampa inquietante, a metà strada tra il Far West e il Sudamerica, il Cavaliere ha fatto l´esatto contrario. Per dimostrare la sua buona volontà, ha negato l´accostamento tra sindacato e terrorismo: non c´è «collusione», e nessuno nel governo lo ha mai detto. Ha difeso Bossi, anche lui vittima delle solite «manipolazioni mediatiche della stampa comunista» (se è così, se ne deduce che i cosacchi hanno invaso ormai persino la Padania, sulla quale ieri mattina campeggiava la famigerata intervista al Senatur infarcita di insinuazioni e di veleni contro la Cgil). Ha liquidato Martino, evidentemente uno di quei ministri le cui dichiarazioni «non contano niente» (se è così, ci si deve chiedere perché ha affidato un dicastero nevralgico come la Difesa a un signore che dice «i sindacati sono un pericolo per la democrazia»).

Ma è bastato un attimo, e con uno scarto improvviso il premier ha cambiato registro. E ha cominciato, lui sì, a lanciare parole come pietre. Come già aveva fatto venerdì scorso, alla vigilia della manifestazione della Cgil al Circo Massimo, si è disinvoltamente riappropriato dell´ultimo martire dei terroristi: «Faremo la riforma Marco Biagi», ha detto. Cucendo addosso al giurista ucciso una modifica allo Statuto dei lavoratori che lui stesso condivideva solo in parte, nel merito e non nel metodo. Ha irriso il sindacato confederale: «Erano meno di 700 mila» e sono venuti «in gita a Roma, con viaggio e vitto pagato». Meritando, dopo quella di Ciampi, anche una sconfessione da Marcello Pera, presidente del Senato, che ieri sera ha detto: «il governo deve rispettare l´opposizione sociale, legittima e utile per la democrazia». Ha lanciato un avvertimento diretto alla Cgil: «Non inviteremo alle trattative chi è pregiudizialmente contrario alle nostre proposte». Dimenticando che, in un sistema democratico, una trattativa serve esattamente a questo, e cioè a convincere chi non è d´accordo. Ha snocciolato i soliti sondaggi e riciclato le solite promesse: a fine anno creerà «un milione e mezzo di posti di lavoro» (il bottino lievita di 500 mila occupati rispetto agli impegni già disattesi del '94) e a fine settimana arriverà non la riduzione delle tasse, ma l´»annuncio della riduzione delle tasse» (chi si accontenta gode, ma confondere gli obiettivi con i risultati è un pessimo metodo di gestione aziendale).
Poi l´ultimo affondo, il più inquietante: «Siamo qui per cambiare il Paese, non per galleggiare... E non ci fermeranno né le piazze, né le pistole».
Il messaggio complessivo è grave e preoccupante. Conferma lo stravagante profilo psicologico e culturale dell´»uomo Berlusconi». Vuole conquistare e sedurre. E non tollera, perché sinceramente non le comprende, le obiezioni di chi gli sta di fronte. Soprattutto, il messaggio complessivo tradisce l´anomalia della visione del «politico Berlusconi». Alterna un moderatismo di facciata e un estremismo di sostanza, senza soluzioni di continuità. Chi governa un Paese, con senso delle istituzioni, dovrebbe saper distinguere tra la fisiologia e la patologia del conflitto. Dovrebbe convincersi che «piazze e pistole» non possono essere associate da nessun denominatore comune. Dovrebbe rendersi conto che «piazze e pistole» non possono stare in un unico e indistinto calderone, che mescola insieme i capi sindacali, i leader della sinistra e qualche milione di italiani con gli assassini di Tarantelli, di D´Antona e di Biagi. Dovrebbe conoscere, per averlo praticato e vissuto, il gigantesco discrimine che separa «piazza e pistole». Quel discrimine si chiama democrazia. E´ la democrazia che legittima la piazza e condanna la pistola.
In nome della democrazia, Berlusconi dovrebbe saper assumere su di sé una doppia responsabilità. La prima gliel´ha indicata ieri mattina il presidente della Repubblica, ricordando lo straordinario impegno etico-morale dell´Italia degli anni '70: è quella di chiamare a raccolta tutte le forze migliori di questo Paese, istituzioni e società civile, partiti di opposizione e sindacati, per combattere insieme la battaglia contro il terrorismo. Che non è «un attacco personale» a Berlusconi, e a tutto ciò che lui rappresenta. Ma come gli hanno ricordato ieri i presidenti di Camera e Senato, è in primo luogo «un attacco allo Stato». La seconda è quella di portare avanti il suo programma di governo, evitando per quanto possibile la strategia del conflitto permanente in tutti i campi nei quali interviene. E rispettando chi dissente. Il leader della Cgil, in questi mesi, ha usato parole forti. «Il governo torni sui suoi passi o il conflitto sociale sarà durissimo e definitivo». «Non ci fermeremo mai, useremo tutti gli strumenti di lotta a nostra disposizione finchè non avremo raggiunto i nostri obiettivi». Ma in nessun caso ha valicato i confini della dialettica sindacale. Ha sempre riconosciuto la legittimità democratica e la legittimazione politica di questo governo a fare le sue scelte. Ma ha rivendicato agli organismi intermedi della società civile (e quindi a sé stesso) il diritto di opporsi con gli strumenti consentiti dal contratto sociale. Compreso lo sciopero generale. Giusto o sbagliato nel merito. Comunque sacralizzato nel metodo, come diritto, sia dalla Costituzione, sia dalla Carta europea di Nizza.
E´ assurdo criminalizzare il sindacato, che oggi torna in piazza e che il 16 aprile farà lo sciopero generale. E´ il suo mestiere. Altro non può e non deve fare, se vuole difendere principi e istituti che considera intangibili. Ma qui si innesca un altro dubbio, sulla strategia del «politico Berlusconi». Con la sua vittoria alle elezioni del 13 maggio, è finito il tempo delle «supplenze» e della «concertazione asimmetrica». In Italia vive una democrazia bipolare, anche se rissosa e incompiuta. Fino agli anni '80 la spallata dei metalmeccanici faceva cadere i governi del proporzionale, nella fase consociativa della Prima Repubblica. Negli anni '90 il blocco Cgil-Cisl-Uil faceva arretrare i governi privi di base parlamentare del post-Tangentopoli, nella stagione anomala della concertazione asimmetrica. E condizionava le scelte di un governo di centrosinistra che vedeva proprio nel sindacato il suo principale «azionista di riferimento». Oggi tutto questo non c´è più. Sulla carta, non esistono ostacoli all´azione di un governo votato da una maggioranza di centrodestra, netta nel Paese e ampia in Parlamento. Se vuole, Berlusconi può riscrivere come crede l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Si tratta di capire se vuole farlo distruggendo gli «avversari», lacerando e logorando il Paese con uno stillicidio di macro e micro conflitti. Si tratta di capire se crede davvero che una grande democrazia si possa governare «contro»: contro i comunisti, contro i magistrati, adesso anche contro il lavoro dipendente. Si tratta di capire se è davvero convinto che in Italia si possa fare a meno del consenso, o ci si possa accontentare di quello dell´ala più dura della Confindustria. Sotto questo profilo, la svolta di ieri non aiuta a svelare la vera strategia di questo governo. E non aiuta nemmeno a spiegare le vere alchimie di questa maggioranza, nella quale i professionisti della politica (e cioè i moderati di centro e quelli di Alleanza nazionale, finora i soli in grado di mantenere un profilo istituzionale accettabile) sembrano ostaggi in balìa delle pulsioni della Lega e dei falchi di Forza Italia.
Anche Margareth Thatcher, nel fuoco della battaglia con i minatori inglesi, negava alle Unions il tavolo della trattativa ad oltranza ripetendo «niente birra e panini a Downing Street». E´ probabile che il Cavaliere sia persuaso di poter fare la stessa cosa. «Il dovere del governo è fare gli interessi del Paese», ha detto ieri. L´apologia della prova di forza, condotta con arrogante dilettantismo, per ora fa solo danni.
 

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