Gli immigrati non tolgono lavoro ma ci aiutano a salvare il welfare

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14 Febbraio 2003 EUROPA. ABBATTERE I MITI DI DESTRA E SINISTRA di Antonio Vitorino Gli immigrati non tolgono lavoro ma ci aiutano a salvare il welfare Coprono attività dequalificate che i nostri disoccupati oggi possono rifiutare
Credo sia tempo di aprire gli occhi su alcune realtà rispetto alla politica dell'immigrazione. La linea di condotta è affollata da troppi miti e fantasie. Vengono diffusi – dobbiamo essere onesti ed ammetterlo – sia dalla destra che dalla sinistra. Ed è anche tempo di decidere cosa vogliamo ottenere a livello europeo. Sono Commissario alla Giustizia e Affari interni alla Commissione europea dal settembre 1999 e vorrei farvi partecipi di alcune esperienze e delle conclusioni a cui sono giunto da allora. I miti sono molteplici: si dice che gli immigrati tolgano occupazione ai lavoratori della società che li ospita, e che, di conseguenza, portino a un aumento della disoccupazione; che anziché agli immigrati si dovrebbe fare formazione alle donne e ai disoccupati, estendere l'età pensionabile o persino promuovere politiche d'incentivazione delle nascite; che le società multiculturali sono di per sé buone o cattive; che l'immigrazione non comporti una maggiore insicurezza sociale; o, di converso, che l'immigrazione equivalga a terrorismo e criminalità; che il flusso di immigrazione non sia necessario e possa essere invertito; che l'asilo politico abbia molto poco a che vedere con l'immigrazione. Intanto vorrei semplicemente sottolineare l'aspetto essenziale del problema. Come giustamente indicato dall'indagine svolta da The Economist del 1° novembre, gli immigrati vengono nei paesi ricchi soprattutto e innanzitutto perché la differenza salariale tra i loro paesi di origine e le società ospitanti sono molto più rilevanti della differenza di costo dei beni di consumo. Il vantaggio individuale è immenso. Quindi coloro che decidono di emigrare sono pronti a sopportare enormi difficoltà e troveranno sempre il modo di evadere i controlli, a meno che non si abbiano frontiere "efficienti" come quella che separava Berlino Est da Berlino Ovest prima del 1989. Nessuno vuole frontiere così "efficienti". Questo evidentemente implica che esiste un mercato per questa forza lavoro. Sarà forse un'ovvietà, ma altrimenti gli immigrati non arriverebbero fin qui. Un altro aspetto estremamente importante di questo quadro è che il funzionamento delle nostre società e delle nostre amministrazioni, rende estremamente difficile espellere delle persone una volta che siano entrate. Quindi certamente paga entrare clandestinamente. Esaminiamo ora il rapporto tra disoccupazione e immigrazione. Spesso i politici – di nuovo, sia di destra che di sinistra – affermano che non ha molto senso aprire le porte all'immigrazione a causa dei nostri tassi di disoccupazione (sfortunatamente spesso ancora alti). Io non sono d'accordo. Gli immigrati trovano lavori che gli autoctoni non vogliono o non possono accettare, anche se sono disoccupati. La verità – e credo che la sinistra non possa avere una visione coerente sull'immigrazione senza riconoscere questo fatto – è che i nostri Stati assistenziali permettono a una larga parte di disoccupati di rifiutare lavori che non possono o non vogliono accettare. La soluzione non è ovviamente lo smantellamento del welfare state. Ma bisogna ammettere che fornire una confortevole rete di sicurezza a tutti, scoraggia i beneficiari dall'accettare lavori sgraditi. Le alternative sono quindi ridurre la portata del welfare state, o accettare il fatto che il suo funzionamento renda inevitabile che una certa parte della forza lavoro debba svolgere dei lavori poco qualificati. Io certamente preferisco quest'ultima possibilità. È anche inutile – almeno per quanto concerne la gamma di lavori poco qualificati – ribattere che i disoccupati dovrebbero essere formati a svolgere lavori che gli immigrati sono felici di accettare. I lavori poco qualificati non richiedono formazione e mancano di valore aggiunto, a parte il fornire una via d'uscita dalla povertà. Per quanto riguarda i lavori qualificati, è certamente vero che infrastrutture e politiche scolastiche potrebbero essere meglio orientate verso professioni richieste dal mercato. Ciò nonostante, dovremmo tenere a mente due cose: primo, l'istruzione richiede tempo; secondo, non tutti i disoccupati hanno le capacità necessarie a svolgere lavori altamente qualificati. Quindi, anche qui si rende necessaria una qualche apertura all'immigrazione. Di conseguenza rifiuto l'affermazione che una forza lavoro d'immigrati possa essere sostituita da donne, anziani o lavoratori non specializzati. Per le ragioni che ho appena citato, i nostri sistemi di welfare sono strutturati in modo tale da far sì che queste categorie non siano interessate ai lavori poco qualificati, né possano essere rapidamente formate a intraprendere funzioni più specialistiche. Ma naturalmente non ho nulla in contrario a che parti inattive della popolazione siano formate per rispondere alle richieste del mercato del lavoro. Non vedo quindi alcuna incompatibilità tra una politica del lavoro così come espressa dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000 e una politica dell'immigrazione. L'affermazione che un'incentivazione delle nascite possa contrastare l'immigrazione – come sostenuto dalla destra – è anch'essa scorretta. Innanzitutto per motivi etici, in quanto le scelte riproduttive sono questioni personali in cui le autorità pubbliche dovrebbero interferire il meno possibile. Secondariamente, nulla sembra indicare che le legislazioni in campo sociale od occupazionale abbiano alcun effetto sugli andamenti riproduttivi. Terzo, non c'è ragione di credere che le nuove generazioni sarebbero più interessate dei propri genitori a quei lavori che invece attirano gli immigrati. Tutti gli studi, ricerche, ecc. sembrano concordi nell'affermare che l'immigrazione (per i motivi appena espressi) non genera affatto più disoccupazione e, nella peggiore delle ipotesi, ha un effetto anodino sulla crescita e sui salari. Semmai, tende a contrastare la crescita dei salari dei lavori poco qualificati, incidendo, in pratica, sulle precedenti ondate migratorie. È mia opinione che il problema, il vantaggio o la sfida – a seconda del punto di vista – sia di natura assai più politica e culturale che non economica.
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