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"J.P. II" (2) Appropriazione di un Pontefice (F.Merlo)

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    lunedì 4 aprile 2005

    Pagina 1 e 27 - Commenti

    Appropriazione di un Pontefice

    Francesco Merlo

    Uno di noi muore. Ma la storia non muore, e il Papa non è morto. Probabilmente era "più morto" quando si accanivano sul suo corpo esausto. Oggi, liberatosi di quel tormentato involucro e del dominio di medici e assistenti, Wojtyla rivive ed alimenta l´orgia aggrovigliata dei progetti annessionistici, è il pasto regale dei sudditi affamati d´anima. Ed è vita che nessuno di quelli che se lo disputano riesce a tenere nelle proprie mani. Così, il Papa-Viaggiatore per le mille contrade e per le mille religioni del mondo deborda dal cappio della Rai e dei giornali che da quattro giorni, in suo onore, ci immaginano tutti mistici e devoti monomaniaci, tutti ermeneuti della Trinità, tutti professori di Cristologia.
      E il grande Papa anticomunista rimpicciolisce Dario Fo che dichiara: «Era l´ultimo comunista». Allo stesso modo il Papa della riconciliazione con gli scismatici ortodossi, il Papa delle scuse agli Ebrei e della benevolenza verso la religiosità precristiana, si contorce e si divincola quando Marcello Pera lo solleva in stendardo per la chiamata alle armi «contro il relativismo culturale» e contro la laicità che distingue l´intelligenza dalla fede. Pera lo "perifica" per fargli dire che le mille verità degli uomini complottano contro l´unica verità cristiana, «la migliore», e che «l´idea stessa del dialogo interreligioso è sbagliata, e anche il Papa ne aveva compreso i limiti» (magari dopo aver parlato con lui).

      È un Papa vivo ma irreale, un Papa indeterminato che acquista ora questo, ora quel profilo a secondo del frate che bussa alla porta del suo pensiero. Ognuno vi ritrova se stesso. Su L´Unità sembra un democratico di Sinistra e sul Giornale un berlusconiano. I soliti quattro invasati da espressionismo cattolico, da religiosità teatrale da basso napoletano, ne fanno un fenomeno di esaltazione estatica, mentre lo scrittore Camilleri lo raffigura come «il Papa uomo», addirittura l´eroe ateo di Merleau-Ponty. Bertinotti lo racconta «pacifista no global e antiliberista» con i pensieri e i capelli spettinati al vento della gratuità, un ragazzo dei centri sociali. Pera gli calca l´elmo in testa, la croce a destra e la lancia a sinistra, «non un pacifista, ma un facitore di pace», un Papa contro l´Europa di Chirac e Schroeder, ma «per l´Europa degli apostoli Pietro e Paolo, dei santi Cirillo e Metodio e dei mercati». C´è, al contrario, chi individua in Wojtyla non la minaccia ma la speranza dell´ Islam perché egli, «come gli imam sciiti, ha restituito alla storia lo Spirito e i valori etici»; e Wojtyla propone «la stessa pacificazione tra l´uomo e Dio» che vanno cercando gli Islamici dai tempi dell´abolizione del califfato.

      Sicuramente non è edificante l´appropriazione delle spoglie di un uomo per lucrare legittimità ed autorevolezza a favore dei propri vizi, delle proprie fobie, dei propri pregiudizi sul mondo. Ma è sempre così che accade quando un protagonista se ne va, sia esso il Papa o Giovanni Agnelli o Raymond Aron… Il Papa di cui stiamo straparlando somiglia a Bertinotti, a Socci, a Vespa, a Ratzinger, ai teocon. Somiglia a tutti, tranne che a se stesso. Ora che non è più icona della sofferenza fisica, metafora e convalida del Trionfo della Morte della Chiesa tridentina, Papa Wojtyla è riapprodato tra le sponde del biliardo della politica e del dibattito intellettuale, una biglia in perenne movimento, materia controversa da interpretare per i devoti, gli studiosi, i vaticanisti, i capi di stato, e ovviamente i nemici e gli avversari, gli ortodossi, gli islamici, gli ebrei, i taoisti, i buddisti, tutti quelli che credono di essere loro i veri rappresentanti di Dio in questa terra, in questo pianetuncolo.

      Ventisette anni di papato sono una bella fetta di secolo, una bella appropriazione di tempo. Ben due generazioni sono state plasmate, condizionate o irritate da questo Papa iperattivo. E, dunque, il concetto di morte, di interruzione improvvisa, non si adatta all´evento. Il Papa è una funzione storica e teologica, un produttore di destini, un capo di Stato, una politica, un alimentatore di idee e di valori, un incantatore di individui e un eccitatore di folle… E davvero i protagonisti della storia non muoiono nel giorno della morte; la spinta che hanno impresso alle vicende umane ha un´autonomia inerziale. La difficoltà, l´attrito, la vischiosità stanno nella partenza, all´inizio del movimento delle cose; e sono davvero molte le cose che Papa Wojtyla ha messo in moto. Chi ha avuto il tempo e il genio di segnare un´epoca e di incidere con la sua orma la storia – come Lincoln o Kennedy o Stalin o Maometto o Cristo – non scompare se non come persona anagrafica, e il Papa è una persona solo per i suoi parenti prossimi, gli intimi, gli amici, che ovviamente non sono poi così tanti come quelli apparsi a fungaia: amici per avergli stretto la mano, baciato l´anello, o per averlo salutato in tv… Neppure quelli che l´hanno assistito in ospedale, dall´attentato sino al lungo accanimento, erano amici del Papa. Per un Papa l´amicizia è sempre problematica. Ma l´amicizia, per definizione e per essenza ontologica, non deve e mai può essere problematica. Se hai un problema, ti fai un amico; ma se l´amico è un problema, che fai?

      Dunque i Papi, i re, gli imperatori non hanno amici, come aveva ben capito il povero Francesco Giuseppe che per essere normale, per non deprimersi al cicaleccio dei suoi consiglieri si fingeva sordo e cambiava identità per vivere indisturbato la sua età. E i Papi non muoiono nel giorno della morte. E sopravvivono pure alla retorica ispirata dei tanti predicatori, matti di sapienza, che la tv ci propone, vie di mezzo tra Milingo e Wanna Marchi, che trovano un bottone divino ad ogni asola politica. E c´è pure la retorica di chi aggredisce la retorica come vizio dell´uomo moderno e ad ogni funerale scopre l´accanimento dei media, la tracimazione del parce sepulto. L´antiretore della retorica e il retore dell´antiretorica invocano un impossibile silenzio. Si sa quanto sono subdole le cerimonie, si sa che sempre desantificano le feste, pretesto di ritualità stanche, dominio della parola sulla cosa, ma è così per tutti, figuriamoci per un Papa. E´ vero in Italia è diventata assordante la chiacchiera sulla morte. Ma non è detto che la morte trasformata in chiacchiera non porti presto alla morte della chiacchiera.

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