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"Il libro" Barbara Ehrenreich: Diario della scrittrice che si fece cameriera

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26 giugno 2002


INCHIESTA In un libro le vicende di Barbara Ehrenreich che ha deciso di mettersi nei panni di chi deve tirare la fine del mese con «Una paga da fame»

Diario della scrittrice che si fece cameriera


Una sociologa americana dal ’98 al 2000 si è dedicata a lavori umili. Per capire come si sopravvive

      Un’americana colta, Barbara Ehrenreich, biologa di formazione, autrice di saggi interdisciplinari, tra sociologia e altri saperi ( Le streghe siamo noi ; Riti di sangue. All’origine della passione della guerra ) , decide, tra il 1998 e il 2000, di tentare un’esperienza sul campo: cancella la propria identità, abitudini, costumi di vita, rinuncia ai propri privilegi e cerca lavoro ai livelli più bassi della società: cameriera, donna delle pulizie, commessa nei supermercati. Ogni sera, quando ritorna dal fast-food o dal ricovero per anziani, stanca morta, con i piedi gonfi, come milioni di altre donne, annota quel che ha fatto e quel che le è accaduto. Da questi appunti è nato un libro inconsueto, Una paga da fame . Come (non) si arriva a fine mese nel Paese più ricco del mondo. Non è un’inchiesta, è inutile scomodare i modelli di George Orwell o di Jack London. Registra la realtà, semplicemente, e lo fa senza spocchia, con ironia, perché la fatica è provvisoria, poi l’autrice tornerà nella sua bella casa e all’università, tra i libri e gli studi amati, senza dover più fare i conti sui centesimi che le mancano per mangiare, per pagare l’affitto del monolocale troppo caldo, troppo freddo, troppo rumoroso, squallido. «Questa non è la storia di una romantica impresa - scrive -, con travestimenti e rischio della vita. Chiunque potrebbe fare quello che ho fatto io: cercare lavoro, lavorare, tirare la fine del mese. Anzi, milioni di americani fanno esattamente questo, tutti i giorni, senza darsi tante arie né credere di fare chissà che». Figlia e nipote di minatori, moglie di un sindacalista degli autotrasportatori, non più giovane, con una salute di ferro che l’aiuta molto nelle sue vicissitudini quotidiane, la Ehrenreich, quando si presenta nelle aziende e negli uffici a cercar lavoro, dice semplicemente di essere una casalinga costretta dal recente divorzio a procurarsi da vivere.
      Barbara Ehrenreich fa così una straordinaria esperienza sociale, politica, psicologica che rende nelle sue pagine con grande ricchezza di osservazioni. Conosce dai piani bassi della società i bisogni reali, i modi di pensare delle donne che fanno un lavoro dequalificato, vede dal vivo quali sono le loro sofferenze, come nascono le depressioni, le frustrazioni, come cadono le speranze in una vita priva di significati in cui contano soltanto i non molti dollari guadagnati per poter tirare avanti, le ore perse, gli straordinari, la sicurezza del lavoro che invece non c’è. E si rende conto delle umiliazioni subite, degli atteggiamenti acquiescenti, delle debolezze, di che cosa significa chinar la testa per necessità e per paura. Nelle sue diverse esperienze capisce qual è e come funziona la gerarchia dell’azienda, come spesso i capetti, con la loro ossessione dei tempi da rispettare, sono, più per desiderio di carriera e per cattiveria innata, peggiori e più disumani dei capi. «La cosa che più mi ha colto impreparata e che ho trovato maggiormente offensiva, nei posti in cui ho lavorato, è stata la misura in cui al lavoratore non qualificato si richiede di rinunciare ai propri diritti civili fondamentali e (ed è in fondo la stessa cosa) al rispetto di sé».
      Diventa un’esperta conoscitrice del lavoro flessibile, del lavoro precario, del lavoro atipico. L’esperienza che Simone Weil fece nel 1934-1935 alle officine Alsthom di Parigi e poi alla Renault, raccontata nel suo «Diario di fabbrica» (
      La condizione operaia , Edizioni di Comunità, 1952) se da un lato è lunarmente lontana per la furia ideologica della Weil, perché sono del tutto mutati i tempi e l’organizzazione e l’essenza stessa del lavoro, dall’altro ha punti di comunanza umana. Scrive Simone: «Che cosa ho guadagnato in questa esperienza? Il senso che non ho nessun diritto, di nessun genere e su nulla. La capacità di essere moralmente autosufficiente, di vivere in questo stato di umiliazione latente e perpetua senza sentirmi umiliata ai miei propri occhi, di gustare intensamente ogni istante di libertà e di amicizia, come se dovesse essere eterno».
      Il libro della Ehrenreich è anche un diario americano di oggi: le piccole città di provincia, le case d’affitto, i ritmi del lavoro, l’organizzazione del terziario, la meccanica dell’occupazione, dai test per essere assunti, con le domande-tranello, alla gestione repressiva, al miraggio del sindacato. La Ehrenreich, che si è data regole e parametri per verificare se, con quel che riesce a guadagnare, può vivere, è pessimista nelle sue conclusioni: non occorre una laurea in Economia, scrive, per capire che in una società ricca come quella americana una persona come lei non ce la fa o ce la fa appena. Qual è la ragione? I salari sono troppo bassi, gli affitti sono troppo alti.
      Di idee progressiste, la Ehrenreich si propone, all’inizio della sua avventura, di essere neutrale nei giudizi, di star zitta. Ma a pagina 66 non ce la fa. Sta pulendo una casa. La padrona, una ricca signora amica di Barbara Bush, la invita a strofinare con energia le mattonelle del bagno da cui essudano gocce rossastre: «Cara signora, vorrei rispondere, quello è il sangue del proletariato di tutto il mondo», di quelli che hanno estratto i marmi, tessuto i tappeti, forgiato l’acciaio, «guidato i camion per rifornirla di tutto questo ben di Dio, quelli che hanno costruito questa reggia e che ora si rompono la schiena a pulirgliela».


      Il libro: Barbara Ehrenreich, «Una paga da fame», editore Feltrinelli, pagine 164, euro 13,50
Corrado Stajano


Cultura

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