L'etica del lavoro secondo Marco Biagi |
di Michele Tiraboschi
Con la pubblicazione sulla «Stampa» di sabato 20 luglio di un ampio stralcio della presentazione di Marco Biagi del Libro bianco sul lavoro alla Consulta per i problemi sociali e il lavoro della Cei (Roma, 25 gennaio 2002) si era aperto un interessante confronto sui rapporti tra il mondo del lavoro e la Chiesa cattolica. Al di là di un certo sensazionalismo giornalistico, in merito a una presunta lite tra il professore bolognese e i delegati della Pastorale del lavoro - lite che in realtà non c'è mai stata -, il resoconto dell'intervento di Marco Biagi pareva in effetti aver contribuito a evidenziare un profilo delle riforme del mercato del lavoro italiano sino ad allora rimasto sullo sfondo dell'aspro confronto politico e sindacale. È stato Franco Debenedetti a ricordarci - sempre sulle stesse colonne - che il Libro bianco affronta temi che, più o meno indirettamente, toccano i fondamenti etici del nostro presente e le prospettive concrete del nostro futuro, ben oltre dunque la polemica sulla riforma dell'articolo 18. Clima di diffidenza. L'editoriale di Eugenio Scalfari su «Il lavoro, Marco Biagi e le critiche della Chiesa», apparso sulla Repubblica di giovedì scorso, rischia tuttavia di gettare una cortina di fumo su questo fondamentale profilo delle riforme del mercato del lavoro, tanto da fare pensare che si tratti, ancora una volta, di una occasione mancata per fare chiarezza. Chiarezza non solo rispetto alla posizione e alle idee di Marco Biagi, artificiosamente quanto grossolanamente mistificate da Scalfari mediante una parziale pubblicazione del suo intervento e di quello dei suoi interlocutori, ma anche rispetto agli scenari del dibattito politico italiano, prigioniero di uno scontro muro contro muro, che rinfocola le polemiche e alimenta un generale clima di diffidenza e rancore. Non è mio compito difendere in questa sede Marco Biagi, e ricordare la sua storia di giurista cattolico e riformista e il suo impegno progettuale, soprattutto nelle città di Modena, Bologna e Milano, in favore dei più deboli e dei soggetti esclusi dal mercato del lavoro (anziani, immigrati, giovani). È del resto sufficiente una lettura integrale del testo trascritto della registrazione della giornata del 25 gennaio, disponibile sul sito del suo Centro studi modenese (www.csmb.unimo.it/docs) per rigettare la rappresentazione fornita da Scalfari di un giurista sordo al dialogo, di un riformista di basso profilo incapace di difendere le sue idee se non in forme assiomatiche. Non solo Marco Biagi aveva colto in quel momento di confronto con l'ambiente della Chiesa a cui apparteneva - come bene intuito dal monsignor Giancarlo Bregantini in chiusura dell'incontro del 25 gennaio - «la bellezza della dialettica, della passione, frutto dell'amore per la gente che abbiamo, frutto della fatica anche di chi vede tanta gente senza lavoro oppure gente espulsa». Checché ne dica Scalfari, Marco Biagi perseguiva una forma alta di riformismo nel campo delle politiche del lavoro e della occupazione. Una occupazione di qualità - sostiene il professore bolognese in uno dei numerosi passaggi maliziosamente tagliati da Scalfari - «che concili il grande aspetto della vita umana che è il lavoro, ma anche gli altri aspetti ugualmente importanti, la vita familiare, la vita personale; potrò aggiungere in questa sede: la vita e l'esperienza religiosa. Un lavoro che consenta all'uomo, alla donna, di realizzare pienamente la sua personalità». Contribuire alla chiarezza. Se davvero si vuole contribuire a fare chiarezza su cosa divide oggi la politica italiana in merito ai numerosi e gravi problemi del mercato del lavoro occorre allora ritornare alla impostazione problematica e pluralista offerta da Franco Debenedetti in merito ai complessi rapporti tra logiche di mercato, impresa e tutele. Sarebbe in ogni caso pretestuoso voler ricavare da un singolo evento, per quanto importante, una valutazione complessiva dell'azione pastorale della Chiesa cattolica nell'ambito sociale e, in specie, nel mondo del lavoro. Nella consapevolezza degli addetti ai lavori, tanto ricca è la pubblicistica magisteriale al riguardo che appare perlomeno incauta la rappresentazione di uno scacchiere di forze rigidamente contrapposte, anche negli stessi ranghi ecclesiali, tra un riformismo di alto e uno di basso livello. Per limitarci all'incontro del 25 gennaio scorso, il confronto tra Marco Biagi e i delegati della Pastorale del lavoro assume a ben vedere un significato simbolico, che va ben al di là del luogo comune di una endemica conflittualità tra le alte sfere della gerarchia paludata della Chiesa e la base progressista e militante. Quel confronto è in realtà solo un piccolo tassello nel cammino pastorale della comunità cristiana; però rimane emblematico di una passione, che animava tanto il professore bolognese quanto i suoi interlocutori, finalizzata a mettere in circolo la progettazione teorica del l'estensore del Libro bianco con le idee e le valutazioni di chi, più di altri, ha il polso effettivo delle condizioni di sofferenza e disagio che attraversano il mondo del lavoro. Se la difficoltà di un dialogo tra competenze ed esperienze così differenziate non viene celata, nondimeno lo scambio serrato tra Marco Biagi e i suoi interlocutori attesta un anelito comune alla comprensione delle opzioni di fondo che presiedono alle scelte operative, senza nascondersi dietro alle formule e ai dogmi, poiché si dirige al contenzioso reale di quanti popolano il mercato del lavoro e le fabbriche. Un vincolo sociale. A una lettura integrale del dossier reso pubblico, emerge al riguardo una convergenza notevole. Nell'esposizione di Marco Biagi, ove illustra il fuoco ideale della proposta di riforma, viene espressamente indicato che la chiave di volta della teorizzazione avanzata è una idea di lavoro agganciata allo sviluppo integrale della persona, nel quadro di un vincolo sociale che non può tralasciare gli individui non ancora rappresentati e tutelati. Da qui l'approdo alle nuove frontiere della partecipazione dei lavoratori e della responsabilità sociale delle imprese. «Il compenso del lavoratore dipendente - afferma Biagi - è certamente un elemento determinante dello scambio, ma non è l'unico elemento di motivazione. È cambiato il mondo del lavoro; c'è più cultura, si legge di più, si parla, la motivazione è data da fattori anche extra monetari e bisogna, quindi, realizzare questi aspetti, uno dei quali è proprio quello che noi chiamiamo la democrazia economica, la partecipazione cioè le modalità per coinvolgere i lavoratori nei processi decisionali e anche in quelli finanziari; quindi parte del ritorno economico può essere dato anche coinvolgendoli nelle scelte di investimento delle imprese stesse». Si può discutere del tratto utopico di questi proclami, però non si può negare che le preoccupazioni manifestate dai delegati della Pastorale del lavoro vadano nella stessa direzione. L'appello alla salvaguardia degli strumenti di concertazione e partecipazione per ovviare a una riduzione mercantilistica della forza lavoro; il richiamo all'impatto culturale di una individualizzazione senza limiti del contratto che riduca il corpo sociale a mera somma di interessi individuali; la denuncia della precarietà di una soluzione lavorativa che disgiunga l'impiego retribuito da un iter di formazione ..., al di là della lucidità con cui sono stati formulati, sono dettati non da un manifesto politico di parte, ma da una riflessione morale che ha a cuore la persona nel suo vitale humus sociale. La segnalazione della convergenza ha il vantaggio di liberare il tavolo dalle insinuazioni di faziosità preconcette. Anche il più recente magistero pontificio si astiene dal dogmatizzare una determinata figura di società e di mercato; però si mostra risoluto - e, per certi aspetti, si direbbe quasi isolato - nel ricordare l'inviolabilità della persona umana e la responsabilità comune per il destino del mondo, in polemica diretta contro tutte le forme di sfruttamento e di alienazione, persino quelle camuffate dall'incantesimo consumista, alimentato da un capitalismo ingordo, ma anche con le forme di un antagonismo conflittuale a prescindere. Una sfida sempre aperta. Magari a qualcuno potrà sembrare troppo facile evocare i massimi sistemi, eppure non risponde a una strategia pilatesca mantenere distinti i livelli del discorso. Quando si evoca la questione morale nel dibattito sul lavoro l'obiettivo è di tutelare il profilo di senso dell'agire dell'uomo: nel lavoro - pure quello negato, precario o sommerso - ne va di lui e delle relazioni sociali che costituiscono la sua identità. Anche per chi si ispira al Vangelo di Gesù l'immaginazione delle condizioni per costruire la città dell'uomo si presenta come una sfida. E una sfida sempre aperta, perché le condizioni storico-effettive non possono essere semplicemente dedotte da un principio morale generale. L'onere di una valutazione prudente non può essere assolto al di fuori di un concerto di competenze, che suppone la disponibilità a quella mediazione e al dialogo a cui Marco Biagi si era sempre ispirato. Il cristiano non dispone di soluzioni prefabbricate, però partecipa con passione all'elaborazione - anche per via di tentativi e sperimentazioni - di una figura di società che, in quanto frutto di una sintesi storica, non si arroga i galloni dell'immutabilità, però ambisce a prospettare un bene praticabile.
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