Sulle pensioni si fonda il sentimento di sicurezza di una società sempre più anziana Un progetto immaginario
di ILVO DIAMANTI
È RARO incontrare l'incoerenza sociale in modo tanto esplicito come nel caso delle pensioni. Che gli italiani ritengono urgente riformare; ma senza riformarle. Modificare; ma senza cambiarle. Sette persone su dieci, nel campione intervistato dall'Eurisko, considerano necessaria una riforma delle pensioni. Sei su dieci, d'altronde, condividono l'idea che l'invecchiamento della popolazione farà esplodere il sistema previdenziale. Oltre quattro italiani su dieci, parallelamente, si dicono convinti che i ventenni d'oggi in futuro non riceveranno alcuna pensione.
Insomma: si direbbe che tanti anni di allarme, su questo argomento, abbiano creato una consapevolezza diffusa circa l'inderogabilità di riformare il sistema pensionistico. Si direbbe che la società italiana sia disposta ad affrontare nuovi sacrifici per non caricare sulle spalle delle giovani generazioni il compito di pagare agli anziani e agli adulti le pensioni che essi non riceveranno; e un debito pubblico che in minima parte hanno contribuito a costruire.
Si direbbe. Ma così non è.
Perché due italiani su tre, in gran parte gli stessi che si dicono convinti della necessità di agire presto sul sistema previdenziale, rifiutano l'ipotesi di alzare l'età pensionabile; mentre la stessa percentuale si oppone senza condizioni al disegno di riforma proposta dal governo. Una frazione minima, il 14% è, invece, d'accordo nell'abolire le pensioni di anzianità. Peraltro, su questo tema si registra una larga convergenza di atteggiamenti. Tutti quanti, decisi a resistere contro ogni cambiamento dell'attuale sistema. Dell'attuale modello. Giovani, adulti e anziani; figli, genitori e nonni; senza distinzioni, da destra a sinistra passando per il centro. Agli stessi giovani non passa per la testa di aderire all'invito lanciato alcuni anni fa da Mario Monti - neppure troppo provocatoriamente - di proclamare uno sciopero contro i loro padri, responsabili di caricare su di loro un'eredità pesante come un macigno.
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Al contrario, gli stessi giovani costituiscono la componente più ampia di coloro che si dicono disposti a scendere in piazza, contro ogni modifica alle pensioni, contro ogni minaccia all'attuale sistema previdenziale. Una propensione a manifestare che coinvolge tre italiani su dieci; che salgono a più di quattro fra coloro che hanno meno di 25 anni. Una percentuale simile a quella che si era mobilitata contro la guerra, nei mesi scorsi.
Insomma, nelle stesse persone, nella stessa persona, convivono, senza apparente conflitto, due visioni, due logiche, fra loro opposte e speculari.
Questo atteggiamento dissociato, in realtà, dispone di alcune ragionevoli spiegazioni.
Anzitutto, la pensione è percepita come un diritto, che secondo il 95% degli italiani - praticamente tutti - lo Stato "deve" garantire a tutti. "Come", non si sa, visto che in pochi pensano che il sistema previdenziale possa reggere a lungo. Ma tant'è. Questa è l'aspettativa. Perché sulle pensioni - e sulla sanità - si fonda il sentimento di sicurezza (o, al contrario, di insicurezza) di una società sempre più anziana. E, comunque, sempre più incerta.
Conta, inoltre, il ruolo importante, perfino eccedente, svolto dalla famiglia, che in Italia è il principale "ammortizzatore sociale". In particolare, garantisce il trasferimento intergenerazionale del patrimonio accumulato (con il contributo delle stesse pensioni); e "assiste" i figli in ogni momento della vita, fino a quando (sempre più avanti nell'età) se ne vanno di casa per vivere da soli; e anche dopo. Da ciò la difficoltà di aprire conflitti aspri: c'è troppa complicità fra genitori e figli.
Ma, al di là di altre spiegazioni specifiche, c'è l'incoerenza dell'orientamento sociale. Che non è un incidente, visto che il rapporto delle persone con la società (lo hanno sottolineato studiosi importanti, come Robert Merton e Jon Elster) è spesso "doppio", ambivalente. Siamo disposti ad approvare i cambiamenti più sostanziali, quando valutiamo i problemi sociali in chiave generale. Ma, quando si traducono in progetti concreti, che contrastano con il nostro specifico interesse, con la nostra condizione, allora la nostra disponibilità si dissolve; e prevale un atteggiamento di resistenza e renitenza. Per questo condividiamo la necessità di agire sul sistema pensionistico; a condizione, però, che non si tocchi la "nostra" pensione. Presente e futura. Né quella di nostro padre.
Se l'incoerenza delle persone e della società è legittima, o almeno comprensibile, l'incoerenza della politica - per quanto altrettanto diffusa - è meno accettabile. Anzi, proprio alla politica spetta il compito di ridurre lo scostamento la distanza fra le due "personalità" che coesistono in noi e nella società, di fronte a scelte di rilievo pubblico. Dovrebbe operare, la politica, per rendere socialmente accettabile la riforma delle pensioni, rendendone meno aspra l'applicazione attraverso, a esempio, il potenziamento degli ammortizzatori sociali, come ha suggerito Eugenio Scalfari. O, altrimenti, imponendola - come ha fatto il governo guidato da Raffarin in Francia, come minaccia di fare Schroeder in Germania - nella convinzione (o nella speranza) che, dopo l'avvio, i cittadini si rassegnino; o si adeguino alle conseguenze che essa produrrà. Soprattutto se la "catastrofe" venga considerata, in caso contrario, inevitabile.
Tuttavia, per ridurre l'ambivalenza degli orientamenti sociali si può percorrere anche la strada inversa. Affrontare la riforma del welfare, senza agire in modo diretto sul tema delle pensioni. Tenendo conto, come ha osservato Luciano Gallino giorni fa su Repubblica, che riformare le pensioni nel modo previsto dal governo risolverebbe solo in parte i problemi della spesa sociale e gli squilibri del mercato del lavoro. Creandone di nuovi. Perché allungare i tempi dell'età pensionabile ridurrebbe gli spazi per l'occupazione giovanile, che è anch'essa un'emergenza grave, soprattutto nel Mezzogiorno. Mentre sui lavoratori maturi e anziani incombe un problema di segno opposto: l'esclusione dal mercato del lavoro, con poche possibilità di rientrarvi, perché "viziati" da professionalità rigide e obsolete.
Se, dunque, alla politica spetta il compito di ridurre l'ambiguità sociale di fronte alle scelte di pubblico interesse, nel caso delle pensioni è avvenuto esattamente l'opposto. Tutti o quasi, al governo e all'opposizione, hanno spiegato per anni che il sistema previdenziale si doveva riformare, riducendo la copertura delle pensioni e ritardandone l'applicazione. Ma nessuno - dopo la riforma Dini-Treu, concertata con le parti sociali - ha spinto in modo convinto in questo senso. Tanti progetti, puntualmente ritirati, al primo accenno di sciopero, soprattutto in vista di scadenze elettorali. Come si è verificato puntualmente in questa occasione, vista la scomparsa del capitolo sulle pensioni dal Dpef presentato dal governo.
Così la forbice fra le convinzioni generali e le posizioni particolari della società, sulla riforma delle pensioni è destinata ad allargarsi. Inseguita e riprodotta dal sistema politico e dal governo: stressato fra il furore riformista di Tremonti e l'intransigente continuismo della Lega. Un gioco rischioso. Per la società e la politica. Perché il contrasto fra la "retorica della riforma necessaria" e la "pratica della riforma immaginaria" non può che accentuare la nostra ambiguità. E la sfiducia nella politica.
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