14/9/2004 ore: 10:56
"Commenti&Analisi" Ciò che hanno perso salari e stipendi non è andato ai profitti dell’industria (G.Mainardo)
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UGUAGLIANZA. VINCITORI E VINTI DAGLI ACCORDI DEL ’92 di GIOVANNI MAINARDO Ciò che hanno perso salari e stipendi non è andato ai profitti dell’industria La partita del reddito l’hanno vinta lavoratori autonomi e aziende di servizi privatizzati La retorica del declino si è alimentata nell’ultimo anno di un allarme sul progressivo presunto impoverimento degli italiani, mettendo in luce un diffuso malcontento per la dinamica dei redditi e sulle condizioni economiche del paese. I sindacati rivendicano una maggiore tutela dei redditi da lavoro dipendente e rimettono in discussione lo schema di relazioni sindacali definito dagli ormai lontani accordi del ’92 (si veda la ricerca dell’Ires-Cigil di questi giorni). Alcuni parlano già di una «questione salariale» sul punto di esplodere. Come si spiegano simultaneamente il diffuso malcontento dei lavoratori e le difficoltà mostrate dalle nostre imprese sui mercati internazionali? Siamo di fronte a un diffuso impoverimento, come da più parti denunciato, o stiamo assistendo a una redistribuzione di redditi che alimenta la protesta delle categorie penalizzate, nel silenzio di quelle che ne traggono beneficio? I risultati della recente Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia e di quella sui consumi dell’Istat, smentiscono la percezione di una crescita della povertà e della disuguaglianza dei redditi negli ultimi anni (cfr. Brandolini, A proposito di povertà e disuguaglianza, www.la voce.it). In realtà, l’apparente staticità degli indicatori di disuguaglianza nascondono dinamiche dei redditi molto diverse per i diversi gruppi sociali. I redditi da lavoro dipendente, sia di operai che di impiegati, sono cresciuti notevolmente meno di quelli di lavoratori autonomi e dirigenti; coerentemente è diminuita la quota delle famiglie di lavoratori autonomi in condizioni di povertà, ma è cresciuta per quelle i cui percettori di reddito lavorano alle dipendenze. Queste indicazioni sono coerenti con un altro lavoro sempre della Banca d’Italia (cfr. Torrini, Profitti e redditività del capitale in Italia, presentato il 4 giugno alla conferenza della rivista Politica Economica), che analizza l’evoluzione della distribuzione dei redditi tra salari e profitti lordi, a livello aggregato e settoriale. Agli inizi di questo decennio la quota dei salari sul valore aggiunto si collocava in Italia su valori storicamente modesti. Anche limitando l’analisi al solo settore privato al netto dei fitti abitativi, la cui rapida crescita nel tempo ha contribuito in misura notevole alla riduzione della quota dei salari, essa è progressivamente diminuita sia nel corso degli anni ottanta che durante gli anni novanta. Nel periodo successivo agli accordi del ’92, le retribuzioni medie per dipendente nel settore privato in rapporto all’indice dei prezzi al consumo sono cresciute di poco più di tre punti percentuali in 10 anni, confermando la deludente crescita dei redditi da lavoro. Tuttavia, a questa moderazione salariale, sono corrisposti andamenti della quota dei profitti e della redditività del capitale tutt’altro che omogenei nei diversi settori. La quota dei profitti è diminuita nel manifatturiero esposto alla concorrenza internazionale, mentre è cresciuta nella media degli altri settori privati. Gli incrementi si sono concentrati nei settori in passato a maggior presenza pubblica, come i settori dell’energia, dei trasporti e comunicazioni e il settore finanziario. Sono i settori interessati dalle privatizzazioni avviate negli anni novanta o che, pur rimanendo in mano pubblica, hanno attraversato sostanziali ristrutturazioni. In questi settori il costo del lavoro è cresciuto in misura ancor più contenuta rispetto agli andamenti medi, alimentando il malcontento di lavoratori che, beneficiando in precedenza di rendite di posizione, hanno visto ridursi progressivamente il loro status economico e prestigio sociale (si pensi ai bancari, ferrovieri, dipendenti della Telecom o dell’Enel). Allo stesso tempo, in questi comparti la produttività è cresciuta più rapidamente rispetto al resto del settore privato. Questi andamenti hanno consentito una riduzione dei costi che si è tradotta in un incremento dei margini più che in una riduzione dei prezzi. Il deflatore del valore aggiunto in questi settori è infatti cresciuto più rapidamente rispetto ai settori esposti alla concorrenza, sostenendo i profitti. Difficile dire quanto questo sia il riflesso di un fisiologico recupero o il risultato dello sfruttamento di rendite di monopolio, specialmente in settori come l’energia e le telecomunicazioni, in cui le privatizzazioni hanno anticipato una liberalizzazione dei mercati ancora da portare a termine; è certo, tuttavia, che fino ad oggi il recupero di efficienza in questi comparti sembra aver favorito una redistribuzione delle rendite tra salari e profitti, piuttosto che una riduzione dei prezzi a beneficio dell’intero sistema e soprattutto delle imprese che operano sui mercati internazionali. Questo forse aiuta anche a spiegare il ripresentarsi, anche in epoca di bassa inflazione e di moderazione salariale, dell’antico problema di una crescita dei prezzi superiore in Italia rispetto a quella osservata negli altri principali paesi europei. Questo differenziale di inflazione ha contribuito ad erodere progressivamente il vantaggio competitivo acquisito dalle nostre imprese con le svalutazioni dei primi anni novanta, danneggiando la nostra capacità di mantenere quote di mercato in settori in cui sempre più forte è la presenza di nuovi paesi industrializzati. L’insoddisfazione che sembra accomunare lavoratori e imprese, è quindi fondata. I salari reali sono effettivamente cresciuti poco, a causa certo di una crescita nel complesso lenta dell’economia e della produttività, ma anche per una redistribuzione di reddito a favore del lavoro autonomo. D’altro canto la lenta crescita dei salari non sembra aver frenato a sufficienza la crescita dei prezzi, di cui hanno beneficiato appunto le «partite iva» e le industrie protette, a scapito delle imprese che operano in settori aperti alla concorrenza internazionale. Antichi mali, quindi, che richiedono cure da più parti invocate ma che il paese trova difficoltà enormi ad attuare: modernizzazione della distribuzione commerciale, riforma delle professioni liberali, liberalizzazione dei settori privatizzati e severa regolazione dei prezzi nei segmenti produttivi caratterizzati da monopolio naturale (rete telefonica, generazione e distribuzione di energia, distribuzione del gas). La capacità di competere di un sistema non passa soltanto attraverso un mercato del lavoro più flessibile, e un costo del lavoro che si muova in linea con la produttività, ma richiede anche e soprattutto la rimozione delle rendite e sacche di inefficienza che frenano i settori più dinamici ed esposti. |