"Commenti" All'Italia manca una strategia della decadenza
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ItaliaOggi (Primo Piano) Numero 295, pag. 3 del 13/12/2002 Mario Unnia
L'ultimo rapporto del Censis descrive un'Italia che ´più a pezzi non si può': si ridimensiona l'industria, non si investe in tecnologia, i servizi sono arretrati, e anche la nostra decantata creatività si esprime a macchia di leopardo, su uno sfondo a dominanza conformistica e ripetitiva. Al lamento per l'Italia con le pile scariche si è accodato un coro di anime candide, ricercatori, storici, politologi, sociologi, scrittori, psichiatri, sportivi, sacerdoti, naturalmente, e l'immancabile show girl, in questo caso Simona Ventura, tutti quanti assai stupiti del drammatico annuncio. Ma perché stupirsi? E dov'è la novità? Dovevamo aspettare il Censis per sapere che siamo una collettività in decadenza? Lo siamo da anni ormai, e a proposito posso portare una testimonianza. Nel 1973, coordinata da un centro studi francese, il Cofror, fu condotta in Europa un'indagine demoscopica sulla percezione che i diversi paesi avevano del loro futuro. All'unica e precisa domanda ´come sarà il tuo paese alla fine del secolo?' i tedeschi in larga maggioranza risposero ´unificato' (si noti che l'unificazione tedesca era allora del tutto improbabile); la maggioranza dei francesi rispose ´i primi in Europa' (e si sa quanto si sono sacrificati per questo impossibile primato); gli inglesi confermarono di essere ancora ´i primi alleati degli americani' (e non mostrarono entusiasmo per la loro presenza in Europa); la sorpresa venne dagli spagnoli che con una percentuale che sfiorava il 50% risposero ´saremo i secondi in Europa' (e francamente pensare che questo fosse possibile era un vero e proprio azzardo). C'erano due paesi nei quali la maggioranza degli interrogati non aveva alcuna idea del futuro, ed erano il Belgio e l'Italia, con una variante, che gli italiani qualificavano gli anni a venire con un aggettivo che non è bene pronunciare davanti alle signore. Quale il senso del sondaggio? Che alcuni paesi, leggi Germania, Francia, Spagna, hanno un ´progetto collettivo' della comunità nazionale, e dunque sono una nazione, altri, leggi Belgio e Italia, non ce l'hanno e dunque non sono una nazione. Se oggi ripetessimo il sondaggio, troveremmo forse delle novità, ma una cosa è certa, la risposta degli italiani sarebbe la stessa, con buona pace del presidente Ciampi che pensa di ricostituire una coscienza che non c'è intonando l'inno di Mameli. Tornando al Censis, viene da pensare che si potrebbe dire del centro studi quel che si dice della scatola nera degli aerei: un aggeggio che registra in tutti i dettagli il disastro, ma non può far nulla per evitarlo. Con un'aggravante, che fino a ieri il Censis registrava anche dettagli sbagliati, cantava le lodi del ´piccolo è bello' che oggi s'è rivelato un punto di debolezza, accreditava l'Italia di capacità creative e imprenditoriali, che ci invidiava il mondo intero e che sembrano quasi scomparse, se si escludono pochi settori, diceva che gli italiani sono capaci di ´fare sistema paese' quando invece è questo un loro vistoso limite, e infine ipotizzava una società civile dotata di virtù taumaturgiche, mentre dobbiamo prendere atto che non è molto meglio della classe politica tanto disprezzata. La nostra è una decadenza, se vogliamo chiamarla così, che viene da lontano, e probabilmente è destinata ad accelerare. Il sintomo più allarmante non sta comunque nella vocazione godereccia degli italiani (corre voce che si vive una volta sola, e come diceva Oscar Wilde ´il problema non è decadere, è decadere bene'): sta invece nel fatto di non essere in grado, proprio perché siamo decadenti, di mettere a punto una strategia della decadenza. La decadenza, in verità, è un fenomeno complesso, e se si vuole che sia una graceful degradation, come la chiamano gli inglesi, e non un crollo sociale, esige di essere gestita con intelligenza. Un punto di partenza può essere costituito da questa considerazione: poiché i decadenti sanno lavorare meglio per i ricchi che per i poveri (e questo perché privilegiano il gusto e la raffinatezza che sono graditi e apprezzati dai ricchi), occorre orientare l'attività collettiva a servizio dei possessori di redditi alti. Un solo esempio, che torna a pennello: produrre auto di lusso e non macchinette per il ceto medio. Oppure valorizzare su vasta scala la nostra ottima tecnologia gastronomica, portandola a livelli di raffinatezza superlativi. Facciamo quattro conti: su sei miliardi di anime, ci saranno 200 milioni di iper ricchi, il cui reddito disponibile si calcola in milioni di dollari e di euro? Ordunque, catturare una buona percentuale di questi ricconi darebbe lavoro e reddito a un paese con il tasso di natalità negativo quale siamo noi. Sarebbero, tra gli altri, i nuovi iper ricchi cinesi che ci consentirebbero di risalire al sesto posto nella classifica dei paesi più industrializzati, dal quale proprio la Cina ci ha retrocessi. Al contrario, continuando a inseguire miraggi industriali e tecnologici per i quali non siamo attrezzati perdiamo tempo e risorse, coltiviamo illusioni di ruolo che stridono con le nostre debolezze, scivoliamo di fatto in posizioni subalterne rispetto ai paesi dotati di progetti collettivi (vedi futuro dell'auto italiana, che come auto di massa sembra finita, e forse potrebbe salvarsi come auto di lusso). Appunto, ci vorrebbe una strategia, ma qui casca l'asino. Mario Unnia |