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"100anni" Esiste ancora la classe operaia?

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    venerd? 10 marzo 2006

    Pagina 3 - Culura

    “Cgil 100 anni al lavoro”. Un ampio e documentato volume, in questi giorni in libreria, che raccoglie decine di interviste e molti contributi, per raccontare il secolo del maggiore sindacato del nostro paese
      Il lavoro cambia. Esiste ancora la classe operaia?
        Pubblichiamo un estratto dell’intervista al sociologo Luciano Gallino tratta dal volume “Cgil 100 anni al lavoro” (pp. 284, euro 12,00) in questi giorni in libreria per l’editore Ponte alle Grazie.

        di Claudio Jampaglia
        e Andrea Milluzzi
          La societ? dello sviluppo tecnologico e di un nuovo ruolo della conoscenza ha prodotto notevoli cambiamenti nel mondo del lavoro, dalla formazione dei lavoratori al loro utilizzo.Queste
          trasfomazioni, la concezione stessa del lavoratore, come stanno influenzando il comportamento del sindacato?

          E’ opportuno partire da un’ampia premessa, perch? troppo spesso si mettono insieme sotto la stessa dizione di “nuovi lavoratori” delle situazioni molto differenti. Quello che ? avvenuto negli ultimi quindici/vent’anni, dopo lo sviluppo dell’informatica, ? la comparsa di un certo numero di professioni radicalmente nuove: esperti delle telecomunicazioni, disegnatori di siti web e molte altre professioni nate da tecnologie che venti anni fa non esistevano o erano agli esordi. Indubbiamente e sotto vari profili l’evoluzione ha inciso profondamente sulla struttura dei rapporti di lavoro frammentandoli giuridicamente e territorialmente, complicando l’azione e la rappresentativit? del sindacato. Le grandi fabbriche sono scomparse, ma in molti casi non ? scomparso quello che le grandi fabbriche producevano. Ma quello che veniva prodotto prima in due chilometri quadrati adesso viene prodotto in mille chilometri quadrati o magari a mille chilometri di distanza. Sono nate le cosiddette catene globali di produzione che anche all’interno di
          un singolo paese si possono distribuire su spazi grandissimi. Per esempio, una buona parte dei componenti della Fiat di Mirafiori vengono dal centro Italia e dal sud, a ottocento chilometri di distanza, cos? come molti elementi del distretto piemontese della componentisitica vanno in Germania o magari negli Usa. Questa evoluzione, in particolare per il suo peso, le sue dimensioni e per la sua diffusione, ? stata pi? importante di quella strettamente tecnologica, perch? sono milioni i lavoratori che non lavorano pi? come prima e che adesso sono inquadrati in diversi tipi di contratto, in modelli organzzativi molto diversi e spesso radicalmente innovativi. La precarizzazione, ad esempio, ? una componente per certi versi essenziale di questo processo: le catene globali di distribuzione del
          lavoro significano frammentazione della produzione in unit? produttive
          sempre pi? piccole che possono facilmente venire dismesse, chiuse o delocalizzate, rasferendo un gran numero di lavoratori, con il risultato che molti vengono licenziati o messi in mobilit?. I sindacati che si erano evoluti per 80 anni, dalla fine dell’800, per fare fronte al pressing materiale e ideale di lavoratori che stavano tutti sotto lo stesso tetto, a volte in centinaia, in molti casi in migliaia, hanno avuto e hanno gravi difficolt? per stare dietro a questa deterritorializzazione della produzione
          e a questa enorme diffusione dello spazio territoriale e anche giuridico. Venti anni fa c’era un tipo di contratto o due, oggi ne esistono dozzine e dozzine.

          C’? un lato positivo nella flessibilit?? Cio?, il lavoratore flessibile pu? essere pi? aperto ai cambiamenti e quindi anche all’evoluzione del suo modo di lavorare e alle possibilit? di avanzare?

          Un lato positivo c’?, per? cozza contro le forme attuali di organizzazione del lavoro. Perch? nelle fabbriche o anche nelle societ? di
          servizi, che sono diventate sempre pi? piccole, c’? stata una riduzione
          della gerarchia aziendale, una maggiore apertura per competenze e iniziative individuali, ma anche richieste di genere nuovo, come
          l’esigenza di tamponare improvvise variazioni della produzione o incidenti tecnici o altre forme di turbamento del flusso produttivo.
          Tutto questo pu? essere la premessa per un tipo di lavoro pi? intelligente,
          pi? emancipato, qualitativamente migliore di quanto non fosse nel passsato. Per? se uno va a vedere l’organizzazione del lavoro scopre che in moltissimi casi, direi la maggioranza, l’organizzazione del lavoro ? rimasta quella di 40 o 50 anni fa. Magari non c’? pi? l’ufficio tempi e metodi, che ? l’archetipo della cosidetta organizzazione scientifica del lavoro, ma c’? il calcolatore che governa fasi di produzione di un minuto, due minuti, tre minuti che ? esattamente quello che faceva l’ufficio tempi e metodi. Semmai lo fa con ancor minore umanit?. Questo vale anche per
          settori relativamente recenti: nei call center ci sono le fasi, le chiameranno magari in un altro modo ma ci sono le fasi di un minuto, un minuto e mezzo per rispondere, capire qual ? il problema e dirottarlo sul
          settore che pu? risolvere quel problema. Nella ristorazione rapida o
          nell’industria agroalimentare che venti anni fa non esisteva, adesso ci
          sono forme di organizzazione del lavoro estremamente parcellari. Io
          temo che per il momento parlare di lavoratore versatile in un buon numero di casi sia dipingere la realt? con una nuova vernice, ma la sostanza non ? poi molto diversa dall’antica divisione del lavoro dove
          alcuni pensano e molti eseguono.

          Possiamo ancora parlare di classe lavoratrice?

          Mi costringe a rispolverare l’antica distinzione fra classe in s? e classe per s?: la classe definita da parametri oggettivi e quella definita invece da parametri soggettivi, dal senso di identificazione, dalla solidariet? con gli altri e dalla coscienza di appartenere a una medesima classe e di avere un comune destino. Se si guarda alla prima definizione, non c’? il minimo
          dubbio che si tratta pur sempre di persone che in base al tipo di lavoro
          che fanno, al tipo di reddito, al posto molto basso che occupano
          nell’ordinamento delle imprese, presentano una comunit? di collocazione
          sociale, di situazione, di destino altrettanto precisa e severa di quanto era l’operaio alle catene di montaggio cinquanta anni fa. Se si parla invece di classe per s?, cio? di persone che hanno coscienza del loro destino e lottano per superarlo, be’, qui per certi aspetti si sono fatti molti passi indietro, anche per ragioni oggettive. Perch? prendere coscienza della
          comunanza di destino in un capannone con tremila operaie che fanno lo stesso lavoro ? un processo pi? diretto e pi? profondo di quando gli stessi lavoratori sono dispersi su un terreno di trentamila metri quadrati e non si vedono pi?. libro
          l’evento

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