25/7/2002 ore: 11:44
Mercato del lavoro, l’Italia dei paradossi
Contenuti associati
Disparità tra regioni nella creazione di occupazione, distanza dall’Europa e carenza di figure specifiche richieste
dal mondo produttivo rendono più faticosa la crescita economica - Sono da evitare gli interventi normativi generici
Mercato del lavoro, l'Italia dei paradossi
La flessibilità ha creato posti quando è stata usata bene
DI DANIELE MARINI
Anche il nostro Paese, non molto diversamente da altri,
è differenziato nelle forme del suo sviluppo sociale ed
economico. Molti studi hanno messo in evidenza le
molteplici caratteristiche su cui si fonda, ad esempio,
la struttura delle imprese e la loro relazione con le
società locali. Ancora negli anni 70, le analisi di Bagnasco,
Trigilia e, poi, Beccattini — solo per citare alcuni fra
gli studiosi — hanno messo in luce le diversità dello
sviluppo territoriale, le articolazioni dei modelli
di crescita socioeconomica.
Molte Italie. Alle Tre Italie allora identificate si sono
aggiunti approfondimenti successivi che hanno messo
in luce come, oltre alla Prima (Nord Ovest), alla Seconda
(Mezzogiorno) e alla Terza Italia (che congiunge il Tirreno
con l’Adriatico, unendo la Toscana, l’Umbria e le Marche
al Nord Est) fosse possibile rinvenire articolazioni ulteriori.
Come le realtà economiche segnate dalle piccole
dimensioni e dallo sviluppo distrettuale fossero rinvenibili,
in realtà, non solo nel Nord Est, ma anche nel Nord Ovest,
attorno alle grandi fabbriche.
E, più di recente, anche nel Mezzogiorno, soprattutto
nella fascia adriatica.
Di conseguenza, così come esistono diversi modelli
di sviluppo d’impresa, parallelamente esistono diversi
mercati del lavoro locali. Al plurale, appunto, perché
diverse sono le condizioni sociali complessive, le forme
di regolazione sociale, il funzionamento delle istituzioni
preposte, le professionalità esistenti e per certi versi
anche le culture del lavoro.
Il mercato del lavoro nazionale oltre che essere articolato
sul territorio, non dissimilmente da altri Paesi, appare tuttavia
maggiormente segnato da fenomeni "paradossali", da forti
disomogeneità e con polarizzazioni regionali.
Forti disomogeneità. Un primo paradosso viene dagli
indicatori tradizionali all’interno del Paese. Ad un tasso di
attività, nel 2001, che nel Trentino Alto Adige si colloca
al 55,5%, fa da contrappeso quello della Sicilia che si
ferma al 42,9 per cento.
A una disoccupazione frizionale del Trentino-Alto Adige
(2,6%) si contrappone quella della Calabria (25,7%).
Un secondo paradosso si riflette nel confronto europeo,
dove le contraddizioni dello sviluppo socio-economico
assumono un risalto ulteriore.
L’Italia, al 2000, aveva un tasso di attività (48,1%)
inferiore alle media dell’Unione europea (56%) e una
disoccupazione ancora superiore (10,8% in Italia,
8,4% circa nell’Ue).
Ma, oltre a tale distanza, il divario che
caratterizza i mercati del lavoro dell’Italia non
trova pari nelle altri Nazioni europee, superando
di gran lunga la Spagna o la Germania, e ancor
di più la Francia o addirittura la Grecia.
Dunque, non solo c’è mediamente
una partecipazione al lavoro ancora minore
che nel resto dell’Europa, ma soprattutto
c’è un divario che delinea una complessità del
Paese accentuata rispetto agli altri partner continentali.
Si tratta di contraddizioni conosciute, da (troppo)
tempo collocate ai primi posti delle agende
politiche e che lo stesso Patto per l’Italia
doverosamente richiama, almeno nelle intenzioni.
A ben vedere, nella storia recente qualcosa sembra
muoversi, in virtù degli ultimi interventi che hanno
introdotto elementi di flessibilità nel mercato (il
cosiddetto Pacchetto Treu). Diversamente da quanto
il dibattito politico-sindacale faccia spesso trasparire,
ciò ha prodotto esiti articolati. Infatti, la flessibilità
non produce automaticamente condizioni di precarietà
sul mercato. Basti considerare come, mediamente,
in Italia fra il 1999 e il 2001 la quota di occupazione
dipendente è accresciuta del 4%, attestandosi
in valori assoluti ben oltre i 21 milioni.
La quota di occupazione dipendente, inoltre, cresce
dal 71,6 al 72,2 per cento.
Per converso, ciò non significa che tutte le forme di
flessibilità siano positive, perché ciò dipende da un mix
di fattori legati al contesto territoriale, alla storia lavorativa
e alla professionalità dei lavoratori, alle strutture formative
esistenti e così via.
In generale, gli andamenti dei mercati del lavoro in Italia,
considerati per ma croaree, stanno mettendo in evidenza
primi segnali di processi di riduzione dei divari finora
conosciuti. Certo, il peso delle vicende storiche non si può
cancellare nel breve volgere di pochi anni.
Tuttavia gli occupati nel Mezzogiorno (1999-2001)
aumentano del 4,5% (il 4,0% in Italia), soprattutto grazie alla
componente femminile (8,1%, 7,0% in Italia).
Professionalità inadeguate. Ma proprio mentre si iniziano
a intravedere questi segnali, un terzo ulteriore e pericoloso
paradosso sembra profilarsi nel mercato del lavoro nazionale.
Diverso dai precedenti, se non altro per il fatto che delinea
un fenomeno analogo, seppure in condizioni diverse: la carenza
di figure professionali adeguate alle richieste del mondo
produttivo. Tale fenomeno, infatti, sembra accomunare il
Nord del Paese, e in particolare il Nord Est, al Mezzogiorno.
Dove, paradossalmente, nonostante tassi di disoccupazione
assai elevati, le imprese faticano a trovare le professionalità
necessarie. Al Nord, e segnatamente nel Nord Est, in
presenza di un mercato del lavoro saturo, le imprese non
dispongono della manodopera adeguata e richiedono persone
immigrate. Nel Mezzogiorno, la manodopera abbonderebbe,
ma non è quella che il mercato richiede.
Le motivazioni e i fattori che producono il mismatch fra
domanda e offerta di lavoro sono diversi fra loro, ma l’esito è
analogo. Al Nord pesa il calo demografico, gli orientamenti
verso il lavoro delle famiglie e delle giovani generazioni.
Nel Mezzogiorno, dove la questione demografica
è meno avvertita, sembrano pesare maggiormente le condizioni
sociali e i sistemi di aspettative. Oltre all’esistenza di un mercato
del lavoro parallelo e irregolare che recentemente l’Istat ha
stimato per il 1999 pari al 22,6% nel Mezzogiorno (in continua
crescita dal 1995), contro il 10,9% del Nord Est.
Complesse interazioni. La comprensione, e le conseguenti
politiche, richiedono dunque un’analisi accurata. Diversi
studi s’interrogano sul reale potere descrittivo delle statistiche
ufficiali riguardo alla condizione lavorativa, in particolare
per il Mezzogiorno. Viceversa, sarebbe difficile spiegare il
perdurare di tassi di disoccupazione così elevati senza
manifestazioni di protesta sociale estesa.
C’è un problema di misurazione, dunque. Nel contempo, ciò
dimostra come sia difficile ricondurre i problemi del mercato
del lavoro alla sola rappresentazione di indicatori quantitativi.
Poiché entra in gioco un’interazione che lega lavoro,
rappresentazioni del lavoro e delle relazioni sociali, qualità
della vita. In modo assai più complesso di quanto non
possa riverberare un indicatore.
Soprattutto, questi paradossi devono invitare ad articolare
maggiormente le analisi dei mercati del lavoro su scala
territoriale. Di più, ad evitare interventi normativi indistinti.
I NUMERI
Gli occupati. Occupati a quota
21.514.000 nel 2001. Di questi,
8.060.000 sono donne. Il terziario
occupa il 62,9%, l’industria il
31,8%, l’agricoltura il 5,3 per cento.
Macroaree. Nel triennio 1999-2001,
l’occupazione cresce nel Nord Ovest
del 3,5%, nel Nord Est del 4,3%, nel
Centro del 3,8%, nel Mezzogiorno
del 4,5 per cento.
Da un anno all’altro. Cresce in
Italia continuamente la quota di
donne occupate: dal 34,9% del
1995, al 37,5% nel 2001. Aumenta
il tasso di terziarizzazione, diminuisce
la quota degli occupati
nell’industria.
La disoccupazione. Le persone in
cerca di occupazione, dopo una
crescita continua fino al 1998
(2.745.000), calano progressivamente
fino ad attestarsi a
2.267.000. Il tasso di disoccupazione
nel 2001 è del 9,5 per cento.
Il confronto con l’Ue. Il tasso di
attività nell’Ue è al 56,0% mentre
in Italia si colloca al 48,1 per cento.
Viceversa, il confronto con il
tasso di disoccupazione (2000) vede
l’Italia ad una soglia superiore:
10,8% contro l’8,4% dell’Ue