La flessibilità è sostenibile
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Giovedì 2 Novembre 2000 italia - lavoro La flessibilità è sostenibile di Luigi Bobba *
Flessibilità: è diventata la parola d’ordine per imprese e lavoratori, famiglie e istituzioni. I processi di cambiamento in atto sono connaturati allo sviluppo di un’economia della conoscenza in un contesto globale. Pensare di fermarli sarebbe sciocco. Viviamo una situazione paradossale: mai come oggi il lavoro è diventato cruciale nei processi di creazione di valore; ma, allo stesso tempo, mai come oggi il lavoratore è stato più vulnerabile verso i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. C’è dunque da chiedersi: è possibile una flessibilità sostenibile? Vale a dire come gestire il cambiamento in modo tale da mantenere e migliorare il livello di benessere raggiunto dagli individui e dalla collettività in un dato contesto economico e sociale.
Qui mi riferirò solo alla possibilità di rendere sostenibile la flessibilità per i lavoratori, in special modo per quelli che sono più esposti alle conseguenze negative dei cambiamenti. Su questi ultimi vengono a scaricarsi tre tipi di oneri derivanti dalla richiesta delle imprese e dei mercati di maggiore flessibilità: una diffusa precarietà e imprevedibilità del percorso lavorativo; un’assenza di crescita professionale o comunque una difficile trasferibilità delle proprie competenze da un lavoro all’altro;una destrutturazione degli aspetti spaziali e relazionali del lavoro tale da generare conseguenze negative sull’indentità personale e professionale.
Per ridurre ed eliminare questi oneri e rendere sostenibile la flessibilità, gli obiettivi che efficaci politiche del lavoro debbono porsi sono così identificabili:
creare un reticolo di servizi per l’impiego tale da far sì che la perdita di un lavoro e il passaggio a una nuova attività non vengano vissute come un dramma;
trovare gli strumenti per consentire di dare continuità e progressione professionale a iter di carriera discontinui;
evitare che la crescente mobilità lavorativa, nonché la diffusione di posti sempre più "virtuali" possano incrinare l’identità lavorativa delle persone;
offrire a tutti l’opportunità di accesso ai processi di formazione continua e di riqualificazione.
Questi obiettivi non sono facili da perseguire e richiedono una vera e propria rivoluzione copernicana: passare da politiche centrate sull’impiego e sul lavoro a politiche dell’apprendimento e della formazione.
Sono tre i percorsi che si possono suggerire per passare dalla enunciazione degli obiettivi a politiche, servizi e norme che rendano sensata la prospettiva della flessibilità sostenibile. Innanzitutto è da incoraggiare, promuovere e sostenere la nascita di vere e proprie "gilde", associazioni di mestiere in grado di offrire una rete protettiva al "popolo del 10%", ai lavoratori atipici. Potrebbe essere un compito nuovo degli stessi sindacati e più in generale dell’associazionismo che nasce dal lavoro. Si tratta di costruire reti associative in grado di rendere la flessibilità e la mobilità del lavoro non una sventura ma un’opportunità. Case in affitto a basso costo, servizi di collocamento e di formazione, consulenze fiscali, contrattuali e previdenziali.
In secondo luogo occorre inventare delle "crendenziali portatili" in modo da consentire il trasferimento — da un posto all’altro — delle capacità professionali acquisite. Ciò che sta avvenendo nel mondo della scuola e dell’Università con i crediti formativi potrebbe servire da esempio anche per il mondo del lavoro: così il lavoratore, cambiando mestiere, posto o contatto non dovrebbe sempre ricominciare da capo. Ciò che ha maturato in termini di abilità professionali, conoscenza di processi e sistemi lavorativi potrebbe essere certificato nel proprio curriculum lavorativo e diventare una risorsa per muoversi da un lavoro all’altro.
Infine la formazione. Sarà il vero "scudo" del lavoratore nell’economia della conoscenza. La flessibilità farà meno paura se la persona che lavora potrà portarsi appresso una propria dotazione di conoscenze, saperi e abilità professionali. A oggi l’opportunità di essere inseriti in processi di riqualificazione e formazione permanente riguarda una piccola minoranza dei lavoratori: poco più del 15 per cento. L’utilizzo della leva fiscale potrebbe rivelarsi decisivo per incentivare gli investimenti in formazione. Anche la stessa legge 53 dell’8 marzo 2000 che prevede la possibilità per chi ha almeno cinque anni di anzianità, di usufruire di 11 mesi di congedo dal lavoro per formazione, rischia di rimanere una bella legge sulla carta. Non si può chiedere troppo al lavoratore: rinunciare al salario e pagarsi la formazione. Allora lo Stato intervenga con una significativa detrazione fiscale per le spese di formazione ed educazione permanente. In sintesi: associazioni professionali e di mestiere, credenziali portatili e formazione permanente possano essere gli strumenti per verificare la praticabilità di una flessibilità sostenibile.
*Presidente nazionale Acli
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