9/10/2002 ore: 11:58

Il declino dell'Italia deriva da istituzioni inadeguate

Contenuti associati



ItaliaOggi (Economia e Politica)
Numero
239, pag. 6 del 9/10/2002
Raimondo Cubeddu


Il richiamo di Fazio.

Il declino dell'Italia deriva da istituzioni inadeguate

Per molti osservatori vi sarebbero plausibili motivi per interpretare ciò che è avvenuto con la presentazione della Finanziaria come una svolta ´populistica' del governo. Di fronte a un crescere di difficoltà economica incapace di gestire, esso, in parole semplici, avrebbe scelto la comoda strada di ´dare addosso ai ricchi'; a quanti, per decenni, hanno perseguito la politica di ´privatizzare gli utili e socializzare le perdite'. La Confindustria, che di questo ceto sarebbe espressione e rappresentante, non si è tirata indietro e, anche se il giudizio era ristretto alla parte riguardante il Mezzogiorno, per bocca del suo presidente ha definito questa Finanziaria, come una delle ´peggiori mai scritte'. Ne è seguita la scontata risposta del governo consistente nell'invito a leggerla e a soppesarla con maggiore attenzione.

Si tratta di una polemica che prevedibilmente si stempererà con aggiustamenti più o meno soddisfacenti, ma che comunque lascerà sul campo due ombre destinate ad allungarsi. La prima concerne il rapporto tra l'attuale governo e la Confindustria. La seconda il carattere della presente fase della politica economica del governo che probabilmente sarà ricordata per il suo ricorrere a strumenti economici, come condoni, blocchi di tariffe e l'enunciazione della necessità economica ma dell'impossibilità politica di fare la riforma previdenziale, che si sperava appartenessero ormai al passato.

Tali polemiche, che potrebbero anche sembrare occasionali, o anche ricorrenti espressioni di reazioni alla presentazione delle finanziarie, finiscono tuttavia per mettere in luce qualcosa di più serio e su cui vale la pena di riflettere per il fatto che sono coeve a due analisi di ben altro spessore sullo stato delle nostre istituzioni.

Il dato allarmante, infatti, non è che una delle parti sociali manifesti esplicitamente il proprio e profondo disappunto sulla Finanziaria, ma che, nonostante l'introduzione di un sistema maggioritario che attribuisce al capo del governo poteri di indirizzo ben più ampi di quelli del passato e che gli consente una larga maggioranza parlamentare, il governo non sembra in grado di poterne fare un uso adeguato.

Sulla sostanziale impotenza delle politiche economiche nazionali di fronte ai trend internazionali non è il caso di tornare. Anche perché confermata dalle parole del capo del governo sulla contemporanea necessità e impossibilità della riforma previdenziale.

Il fatto è che quei trend, che in altri paesi sono utilizzati come dei preziosi (anche se sgradevoli) campanelli d'allarme sull'inefficienza della struttura statale, e quindi come stimoli per adeguarla solertemente alle nuove circostanze, sono da noi la scusa per rinviare le scelte politiche capitali.

Il risultato è indicativo della perversione della nostra cultura politica. I dati riportati dal governatore Fazio sul declino dell'Italia come potenza economica, e il discorso con cui a Capri il presidente del senato Pera ha richiamato tutti, e non solo il governo, sull'urgenza di riforme istituzionali, sono stati semplicisticamente intesi come critiche al governo. Segnali più o meno espliciti di un mutamento di clima politico. In altre parole, e in questo consiste la ´perversione', ogni analisi seria viene ormai ridotta alla contingenza politica, e chi ha il coraggio di richiamare l'attenzione sul fatto che esistono questioni serie che non possono essere ulteriormente eluse viene ridotto ad attore di un piccolo gioco.

Quel declino di cui ha parlato Fazio non è che il risultato di quel gioco: di tentativi di ´aggiustare' situazioni compiuti senza nessuna strategia politica ma soltanto al fine di prolungare un gioco che ha come fine l'occupazione di un potere che, una volta raggiunto, si mostra privo di poteri decisionali.

Ora, che nella complessa epoca della globalizzazione la politica abbia avuto ridotto il proprio ruolo è senz'altro vero, ma è pur vero che, essendo la globalizzazione una nuova forma di competizione fra stati ed entità non statuali, sull'efficienza delle istituzioni statuali come strumento di competizione la politica ha ancora molto da dire. E che può farlo poiché di quelle scelte continua a detenere il monopolio.

Non è difficile, per chi abbia conoscenza degli sviluppi della teoria delle istituzioni, accorgersi che il declino evocato e illustrato da Fazio è il figlio naturale di istituzioni ormai (e anche da un bel po') inadeguate ai tempi. Come non è arduo, per chi lo legga senza pregiudizi ´dietrologici', accorgersi che il discorso di Pera non è che un tentativo di distinguere il problema della riforma delle istituzioni da quello della gestione degli affari correnti.

Di conseguenza, il comune obiettivo appare quello di restituire alla politica strumenti per compiere tempestivamente scelte strategiche. Per consentirle di uscire da una gestione dell'accidentalità così asfissiante e inconcludente da far dimenticare quel declino, e così faziosa da ridursi ed esaurirsi nella ricerca di capri espiatori.

Pertanto, chi quegli interventi considera come critiche più o meno sofisticate e criptiche a Berlusconi potrebbe magari cogliere nel segno, ma contemporaneamente darebbe un consistente contributo a nascondere all'opinione pubblica quello che è il problema reale: l'arretratezza del nostro sistema istituzionale rispetto a quello degli altri paesi Ue e occidentali.

Una situazione che perdura da decenni e che non può essere imputata a Berlusconi il quale, semmai, ha la responsabilità di non aver ancora messo mano a quelle promesse che ne avevano caratterizzato la campagna elettorale.

Questa riduzione della politica a baruffe di potere e a scontro tra poteri è ben messa in evidenza da una circostanza. Quei dati e quelle cifre riportate da Fazio non sono nuovi, esistono da anni e sono anche facilmente accessibili, ma acquistano rilevanza e notorietà solo quando possono essere usati ai fini di una dialettica politica ormai autoreferenziale.

Probabilmente, nei prossimi giorni, se ne parlerà ancora e forse anche a lungo, ma il tutto, c'è da scommetterci, non nella prospettiva di individuare solertemente gli strumenti migliori per invertire la tendenza, ma nell'inconcludente prospettiva di scoprirne i responsabili e di scagionare qualcuno.

Che la nostra sia la storia di una decadenza può anche essere vero, ma non c'è nessun motivo ragionevole per prolungarla riducendo la politica a storiografia economica e giudiziaria. Ogni tendenza, per chi non la ritiene prodotta (sia pure involontariamente) da scelte umane, può essere mutata. Basta volerlo, soprattutto se si riesce a distinguere il problema delle istituzioni da quello delle ambizioni e delle polemiche contingenti.

Anche una legge finanziaria, che nei suoi tempi, nelle mediazioni e nei compromessi di cui vive e nella ripartizione di costi e benefici mostra quanto il nostro sistema politico sia complesso e farraginoso, può essere occasione e stimolo per iniziare le riforme, non per continuare polemiche inconcludenti.

Raimondo Cubeddu

Close menu