2/11/2000 ore: 9:45

Grandi catene & Pmi: Hotel, mercato «ingessato»

Contenuti associati

loghino.gif (3272 byte)

ombraban.gif (478 byte)


Giovedì 2 Novembre 2000
italia-turismo
Grandi catene & Pmi
: La diffusione dei gruppi e dei marchi internazionali si fa strada con difficoltà.
Bocca (Federalberghi): prezzi troppo alti.
Hotel, mercato «ingessato».
I fondi istituzionali scendono in campo per la separazione tra proprietà immobiliare e gestione

MILANO «In Italia il valore di una camera d’albergo va da 100 milioni a un miliardo, con questi prezzi anche le grandi catene fanno fatica a muoversi ed è difficile pensare che il mercato possa dare vita a movimenti di una certa importanza». Il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca (Sina Hotels), non si fa illusioni: il modello di albergatore-imprenditore-proprietario immobiliare — il modello di albergo all’italiana, insomma — è lungi dal rischiare l’estinzione.

Il Rapporto 2000 sul sistema alberghiero in Italia, preparato per Federalberghi-Confturismo dalla Mercury e che verrà presentato l’11 novembre a Genova in occasione del Tecnhotel, conferma questa tesi: i grandi gruppi aumentano sì la presenza in Italia, ma soprattutto si scambiano le proprietà tra di loro. E nel raffronto con l’anno precedente i nuovi ingressi si contano sulle dita di una mano. Accor, Bass, Ladbroke, Marriott, Starwood e via dicendo: ci sono tutti, ormai, e questa è già una notizia, perché fino a pochi anni orsono erano ancora assenti nomi importanti, ma i progressi sono abbastanza ridotti. Così i leader del mercato non sono catene, ma consorzi volontari (Best Western) o cooperative di servizi (Space).

In Italia è difficilissimo costruire strutture nuove e la strada dello sviluppo passa dall’acquisizione di alberghi, dalla gestione/management di attività già avviate (quindi senza acquistare gli immobili); dalla cessione del marchio in franchising. Quest’ultima formula, nota il Rapporto, comincia a farsi strada anche tra le catene italiane, il che potrebbe dare una spinta a un processo di concentrazione ancora in fieri. L’anno scorso il Rapporto stimava che solo il 15% degli alberghi italiani facesse capo a catene o gruppi volontari.

Eppure, incrociando la necessità di acquisire nuovi alberghi da parte delle catene con le esigenze degli albergatori indipendenti, anche in Italia si stanno sviluppando formule più moderne di imprenditorialità: dai consorzi al franchising, dalla gestione al management. Chi cede la gestione, viene "ripagato" da una quota legata al fatturato e eventualmente da una legata alla redditività (utile operativo). Per chi sceglie il franchising (si veda l’articolo sopra) le condizioni possono prevedere un diritto di entrata fisso, un fee per ogni camera, fisso o variabile; eventualmente una percentuale sulle prenotazioni. I consorzi volontari sono tutt’altra cosa: il più noto, Best Western, fa pagare una quota di adesione in cambio di servizi.

A tutto questo si aggiunge il capitolo della proprietà immobiliare, che vede i primi casi di cessione della proprietà a investitori specializzati. Lo fanno i grandi gruppi: Starwood, ad esempio, che in Italia opera sia in proprietà sia in franchising, ha appena annunciato di voler cedere la proprietà degli alberghi Ciga per oltre 3mila miliardi, pur volendo mantenerne il management. Ma è un’opportunità anche per i piccoli. «Il caso classico è quello del proprietario che non ha più intenzione di rinnovare l’affitto al gestore — sottolinea Paolo Asso, past president di Unai (Unione nazionale alberghi italiani) — se subentra un gestore immobiliare istituzionale, l’albergatore può contare su canoni di affitto molto più lunghi, normalmente legati al giro d’affari».

«La divisione tra proprietà e gestione è un fenomeno ancora nuovo — sottolinea invece Bocca — ma bisogna distinguere tra il fondo immobiliare, che normalmente sceglie un canone fisso, e l’investitore immobiliare, che invece si fa partecipe con il gestore del rischio aziendale, e quindi richiede una quota a cui si aggiunge una percentuale del fatturato». Per quel che riguarda le spese di manutenzione, normalmente il gestore si accolla quella ordinaria, mentre al proprietario spetta quella straordinaria. I canoni d’affitto, in genere di nove anni rinnovabili per altri nove, si allungano a 30 anni se la proprietà non è privata ma istituzionale.

«I gruppi preferiscono comprare, perché comunque i fondi immobiliari chiedono un rendimento che è paragonabile a quello che chiedono le banche per un mutuo — conclude Bocca — Certo l’opzione diventa interessante se si deve acquistare un pacchetto di tre o quattro alberghi, per esempio. Allora si può ricorrere a questa formula per non patrimonializzare troppo la società».

Martino Cavalli

Close menu