6/7/2007 ore: 12:27
Fisco: Professione evasore
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Pagine 50/56 - Attualità FISCO / LA GUERRA DELLE IMPOSTE Professione evasore Tutti contro Visco e le sue tasse. Siamo andati a fare i conti alla piccola impresa. Pochi onesti. E tanti truffatori Questa tecnica gli uffici tributari del Veneto la chiamano pressing: non è né una vera indagine né un accertamento, ma un far sentire il fiato sul collo. E funziona benissimo usata anche il venerdì pomeriggio nei saloni di parrucchiere per signore, dove le clienti salgono improvvisamente da quattro a 20, dai barbieri, dai veterinari oppure nelle discoteche. Ovunque si ottengono straordinari effetti moltiplicatori sui ricavi. E si dimostra quello che il popolo degli artigiani e dei commercianti non ama sentirsi dire: che nella piccola impresa si annida ancora una bella porzione di evasione fiscale su cui l'Italia vanta numeri record. Cento miliardi di euro, il 7 per cento del Pil, secondo la più recente stima del ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa, il doppio di quella che si registra in Gran Bretagna, Francia e Germania, quattro volte l'Olanda, l'Austria e l'Irlanda. Di questa vergogna nazionale artigiani e commercianti non si curano. Anzi, proprio da loro parte la rivolta contro il governo che sta animando le piazze del Nord, dove si lamenta l'ignobile tartassamento perpetrato dal responsabile delle Finanze Vincenzo Visco, colpevole di avere deciso di stringere le maglie della rete attraverso cui passano i comportamenti scorretti. Cioè di avere reso un po' più difficile far sparire quote di reddito, insomma evadere. Il terreno su cui si è infiammata la battaglia tra fisco e autonomi è quello degli studi di settore, che sono la griglia attraverso cui il singolo imprenditore, in quel settore e in quel territorio, può stimare il suo ricavo statisticamente più probabile. Il sistema serve a indurre chi ha la coda di paglia ad adeguarsi, mentre chi invece ha sufficienti motivi per non rientrarci, può tranquillamente denunciare le sue difficoltà. In questo caso gli uffici vorranno vederci chiaro, ma ciò non dovrebbe fare paura. Comunque, il sistema è costruito "non per fare dichiarare tutto", come ammette Giampietro Brunello, amministratore delegato della Sose, la società che costruisce gli studi di settore, ma per non evadere troppo. Quindi, gli studi di settore tendono di fatto a sottostimare la realtà. Nonostante ciò, dalla loro introduzione gli studi hanno fatto emergere una parte del giro d'affari che prima si svolgeva al riparo dale tasse. Nel caso dei parrucchieri, su cui è stata fatta una indagine, se prima denunciavano un terzo dei ricavi reali, oggi sono arrivati al 50 per cento, ma è ragionevole che una cifra simile riguardi tutte le attività dei servizi alla persona, dagli idraulici ai tappezzieri. Nella parte degli agnellini azzannati dall'erario i tre milioni di contribuenti degli studi di settore non appaiono quindi credibili. E non lo sono neanche quando protestano contro l'intervento di Visco. Cosa ha fatto il viceministro? Visto che gli studi di settore non venivano aggiornati da tempo, e che comunque la loro applicazione aveva messo in evidenza qualche magagna, ha introdotto lo scorso marzo i cosiddetti indici di normalità da applicare subito, sui redditi del 2006 su cui si stanno facendo ora le dichiarazioni. Si tratta in pratica di parametri per valutare meglio la verosimiglianza dei costi vantati dai contribuenti: voce fondamentale, perché è quella che riduce i ricavi su cui si pagano alla fine le imposte. Per esempio, i tempi di rotazione delle scorte (per i bar 71 giorni, 50 per i ristoranti) devono essere credibili, e altrettanto il valore aggiunto prodotto da un dipendente (almeno 15 mila 800 euro l'anno per quello di un albergo; almeno 16 mila per quello di un bar, peraltro ridotti alla metà rispetto a quelli stimati dalla contabilità nazionale). L'effetto, tanto per fare un esempio, sarà quello di rendere più difficile a un pescivendolo di portare in detrazione scorte di pesce fresco per otto mesi. O a quel venditore di tappeti di dichiarare rimanenze di magazzino superiori a quelle di inizio anno: vuol dire che ha venduto in nero, non pagando l'Iva, ma andando in credito per questa imposta. Credito con cui può compensare anche altre tasse, dall'Irpef all'Ici. Con un effetto di evasione a catena. O, ancora, di attirare l'occhio del fisco su quel commerciante di abbigliamento che, pur dichiarando un ricavo assolutamente in linea con la "normalità economica", sotto sotto taroccava i costi facendo scomparire il reddito. Tutti casi veri, truffe da manuale scovate dal fisco in cui non si può non scorgere lo zampino dei signori commercialisti. Tutti costoro, e quanti, pur non essendo stati scoperti, usano gli stessi metodi, al fisco appariranno improvvisamente più ricchi. È giusto o sbagliato? Ma è accettabile che all'appuntamento con le tasse di quest'anno siano solo i lavoratori dipendenti a soffrire di più dell'anno passato? Invece, apriti cielo. E la protesta ha trovato orecchie anche in Parlamento, dove non solo l'opposizione, ma anche la maggioranza, hanno perorato la rivolta contro i famigerati indicatori. Minando in questo modo l'introito che si attendeva da questa voce della lotta all'evasione, e mettendo in cattiva luce anche la prossima revisione degli studi di settore, che Visco ha promesso per il 2008. Risultato disastroso in termini di equità. Eppure qualche esempio di come vanno effettivamente le cose sul fronte della piccola impresa al governo non manca. Basta fare una ricognizione presso gli uffici periferici dell'agenzia delle Entrate per ottenere una galleria di situazioni emblematiche. Il ristorante in collina Nei dintorni di Soave, tra i vigneti famosi di questa cittadina del veronese, c'è una bella villa antica molto nota a chi vuole organizzare pranzi di nozze. Quando la tributaria è arrivata, il fatturato dichiarato di 920 mila euro non era poi male, anche se poi di tutto questo ai tre soci restavano solo 30 mila euro di reddito da dividersi. Ma l'elemento che ha fatto rizzare le antenne al fisco è stato l'indice di produttività per addetto. I 16 dipendenti più i soci producevano solo 29 mila euro l'anno, contro un valore che per quel tipo di attività e collocazione non poteva essere inferiore ai 44 mila euro. Ma la vera puzza di bruciato veniva dai prezzi del menù dichiarati al fisco. Il lussuoso ristorante di una delle zone più ricche d'Italia confessava un ricarico neanche da tavola calda: meno del doppio dei costi. Passato attraverso la lente della verifica, il ricavo accertato è salito a un milione e 337 mila euro. |