8/4/2004 ore: 11:58

"Mondo" Wal-Mart, la ferrea legge del gigante

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1- Wal-Mart, la ferrea legge del gigante
2- In California il gruppo ricorre al referendum

      sezione: COMMENTI E INCHIESTE
      data: 2004-04-07 - pag: 9
      autore: MARCO VALSANIA
      La rete di supermercati creata dalla famiglia Walton ha un giro d’affari di oltre 256 miliardi di $: con 1,2 milioni di dipendenti è la più grande azienda Usa - Dove apre una sede, per i piccoli commercianti arriva la chiusura

      Wal-Mart, la ferrea legge del gigante

      NEW YORK • Michael Rodriguez era al lavoro, turno di notte, nel grande magazzino Sam’s Club, uno dei "marchi" dell’impero di Wal-Mart, quando una delle macchine usate per spostare la merce sugli scaffali si schiantò sulla sua caviglia. Ma il vero dramma, per Rodriguez, cominciò subito dopo l’incidente, che gli lasciò il piede maciullato: dal Sam’s Club riuscì a uscire soltanto un’ora dopo, alle quattro di mattina, quando qualcuno arrivò con le chiavi. Perché per quindici anni la strategia aziendale di Wal-Mart ha previsto il lock-in, il sequestro dei dipendenti del turno di notte in alcuni dei suoi grandi centri vendita. Una strategia volta, ufficialmente, a minimizzare anzitutto i rischi di rapine. Ma, sottovoce, anche a minimizzare i furti da parte dei lavoratori. E spesso nessun dirigente in possesso di chiavi è presente, mentre le uscite di sicurezza sono vietate tranne che in caso di incendio — pena il licenziamento. L’azienda si difende affermando che solo il 10% dei suoi centri applica il lockin, tutti in aree ad alta criminalità. Ma l’incidente a Rodriguez, riportato sulle colonne del «New York Times», e altri simili toccano nervi improvvisamente scoperti: quelli del dibattito sulle ripercussioni del modello Wal-Mart sull’intera economia americana.
      Un modello che tra i suoi fautori sucita ammirazione incondizionata, incarnando nuove frontiere di crescita economica: il rilancio della produttività, attraverso la spinta a contenere i costi, e la diffusione di benessere, con l’apertura di miriadi di negozi a basso costo. E che tra i critici suscita altrettanto incondizionata animosità, esempio di spirali distruttive: inarrestabile peggioramento delle condizioni per lavoratori e fornitori, disintegrazione del tessuto sociale locale sbaragliando i piccoli concorrenti. La realta è che Wal-Mart ha i numeri per giustificare, nel bene e nel male, simili diatribe e simili impatti sull’economia della principale potenza economica mondiale.
      Il colosso del retail è a sua volta una potenza globale: i suoi conti stellari rivelano un giro d’affari di oltre 256 miliardi di dollari che le garantisce non solo il primato di più grande azienda al mondo, ma equivale al Pil di interi Paesi industrializzati.
      I suoi 1,2 milioni di dipendenti in 3.500 centri soltanto negli Stati Uniti (cui si aggiungono un altro migliaio nel mondo e la progettata apertura di altri mille in cinque anni) gli assicurano la posizione di principale datore di lavoro privato americano, in assoluto secondo solo al Governo federale.
      Nei suoi punti vendita passano 138 milioni di consumatori alla settimana, con l’82% degli americani che in un anno compiono almeno un acquisto nei suoi negozi. La famiglia fondatrice dei Walton è tuttora in vetta alle classifiche delle dinastie più ricche del pianeta, con l’erede S. Robson Walton sulla poltrona di presidente della società coadiuvato dall’amministratore delegato H. Lee Scott. Wal-Mart è stato finora sovente citato quale esempio aziendale di successo e di costante capacità di innovazione tecnologica nei suoi sistemi di approvvigionamento e di vendita. La sua influenza sulla società americana sollevava polemiche soprattutto sul fronte culturale: il suo raggio d’azione può garantire il successo o fallimento anche di dischi, libri e video. Tanto da vantare il titolo di "guardiano morale", per aver chiesto e ottenuto da Hollywood versioni ripulite dei prodotti culturali. Negli ultimi tempi, invece, sul palcoscenico è salita una più ampia controversia sul suo ruolo sociale e "macroeconomico": uno dei primi libri denuncia, Nickel and Dimed, di Barbara Ehrenreich, fin dal 2001 aveva evidenziato la macchina della povertà che ruoterebbe attorno allo stile Wal-Mart. Mettendosi nei panni di un americano alla ricerca di lavoro nel settore dei servizi, la Ehrenreich scopre che, dietro al "culto di Sam" (Walton, carismatico fondatore dell’impero) ci sono salari da sette-otto dollari l’ora che rendono impossibile agli "associati", come sono ribattezzati i dipendenti, anche solo affittare un appartamento e mangiare decentemente nel cuore dell’America.
      È però di recente che si sono moltiplicate le accuse al miracolo Wal-Mart — nato nel dopoguerra in Arkansas, dove a Bentonville conserva il suo austero quartier generale. Un miracolo carico di malesseri simbolici di un’economia che anche in tempi di crescita fatica a sanare le sperequazioni.
      Indagini interne — poi disconosciute dall’azienda — hanno mostrato violazioni di regolamenti statali sul lavoro minorile e sui diritti alle pause. Sono affiorarti casi di discriminazione contro le donne. La sua leggendaria avversione al sindacato — cui contrappone una politica di "porte aperte" dei dirigente alle critiche dei dipendenti — è oggetto di offensive delle Union.Una recente denuncia ha calcolato che nel 2001 il salario medio degli "associati" è stato di 13.861 dollari l’anno, sotto la soglia federale della povertà per una famiglia di quattro persone, pari a 14.630 dollari. E i suoi ridotti benefit sanitari — gran parte di dipendenti non possono permetterseli perché richiedono contributi individuali troppo elevati — sono stati dissezionati dal «Wall Steet Journal».
      Per finire, un’operazione dell’immigrazione — conclusa da una retata di 250 persone in 61 grandi magazzini di 21 Stati — ha portato alla luce l’utilizzo di personale illegale in mansioni di pulizia. Alcuni degli "illegali" hanno anche presentato ricorso contro WalMart, dopo aver lavorato 60 ore alla settimana, sette notti alla settimana, senza ferie o benefit per forse sei dollari l’ora.
      Il dibattito pone a confronto due tesi contrapposte e ha ormai contagiato anche l’accademia. Chi difende Wal-Mart cita il passo del suo sviluppo, la sua capacità di portare merci a basso costo in comunità che prima non potevano permettersele e la spinta all’efficienza che le strategie coscienti dei costi, trasferite al suo esercito di fornitori o concorrenti, impongono su scala nazionale.
      Cita la sua etica di business, dove i fornitori sono ricevuti senza troppi onori, sono sollecitati a diventare più competitivi e dove campeggiano massime di condanna di corruzione e bustarelle.
      Secondo stime della New England Consulting, il contagio dei bassi costi di Wal-Mart genererebbe risparmi annuali per almeno 20 miliardi di dollari, che lievitano a cento miliardi quando si tiene conto dell’effetto sui concorrenti. Nei mercati dove Wal-Mart è sbarcata, i prezzi di prodotti base quali gli alimenti sono scesi del 10 o del 15 per cento.
      L’America compra il 30% dei pannolini e il 26% dei dentifrici, il 20% di video e cd e il 15% dei libri da Wal-Mart. I detrattori guardano all’altra faccia della medaglia: i danni di lungo periodo a Main Street, alla rete sociale e anche imprenditoriale americana: un portavoce del sindacato dei lavoratori del settore alimentare e della distribuzione, interpellato di recente dalla stampa su uno sciopero nei supermercati esploso in California, ha apostrofato l’azienda come un «modello di sfruttamento dei dipendenti, di standard di vita sempre più bassi».
      Una sfida che richiede riposte prima che Wal-Mart «distrugga il tessuto sociale, comunità dopo comunità». Diverse imprese sono finite in crisi davanti a ordini cancellati da WalMart nella gara a prezzi sempre più bassi. Oppure sono ricorse a un’altra pratica che infiamma gli animi, il trasferimento di produzione in Cina o altri Paesi in via di sviluppo. Davanti all’avanzata di WalMart, alcune località sono ricorse al passaggio di ordinanze speciali: in California numerosi Comuni hanno discusso limiti all’epansione dei mega-store entro i loro confini. E proprio questo ciclo di continua espansione e continue tensioni, interne e nelle comunità dove opera, potrebbe costringere Wal-Mart a rifare i conti.
sezione: COMMENTI E INCHIESTE
data: 2004-04-07 - pag: 9
autore: STEFANO CARRER
OGGI IL RISULTATO

In California il gruppo ricorre al referendum

NEW YORK • È in California che la strategia di Wal-Mart affronta in questi giorni la prova più dura, con implicazioni persino filosofico-politiche: è giusto che un grande gruppo commerciale possa cambiare la fisionomia di un’intera comunità promuovendo un referendum per aggirare le barriere amministrative alla sua espansione? Ieri a Inglewood, un sobborgo di Los Angeles di 120mila abitanti, si è votato per approvare o meno l’apertura di un "supercentro", un ibrido a dimensioni maggiorate tra un tradizionale punto vendita Wal-Mart e un megadiscount alimentare che sarà il fulcro di un centro commerciale esteso su 60 acri di terreno. Un’iniziativa di sondaggio politico dal costo stimato in un milione di dollari, proposta dal gigante della distribuzione nel quadro di una svolta decisamente aggressiva contro gli ostacoli che le autorità locali e la società civile di molte località californiane oppongono al suo progetto di aprire 40 supercentri nello Stato dell’Ovest. È la prima volta che i cittadini sono chiamati ad approvare uno specifico progetto di urbanizzazione e non solo ad abrogare o meno una ordinanza generica di limitazione dello sviluppo commerciale. Due scuole di pensiero inconciliabili si confrontano, con margini di mediazione davvero ridotti. WalMart sostiene che il suo arrivo porterà benefici alle comunità attraverso una riduzione dei prezzi per i consumatori e la creazione di nuovi posti di lavoro: dalla sua parte ha un rapporto del Los Angeles Economic Development Council (commissionato dallo stesso gruppo dell’Arkansas) secondo il quale i supercentri porteranno a un incremento netto dell’occupazione: per la sola contea di Los Angeles si tratterebbe di un risparmio di 569 dollari l’anno per famiglia, con l’attivazione di 17.300 posti di lavoro. Cifre contestate dal vasto schieramento di oppositori e in particolare da uno studio dell’Ubs rilasciato a ridosso del referendum: secondo l’analista Keith Mills, soprattutto l’espansione di Wal-Mart nell’alimentare porterà molti negozianti e strutture commerciali più piccole a dover abbandonare l’attività. Sicché il saldo occupazionale sarà negativo. C’è poi l’aspetto ambientale, in uno Stato molto sensibile a questioni come la regolamentazione del traffico automobilistico e la tutela dell’equilibrio urbanistico-territoriale. Ma c’è anche la preoccupazione dei sindacati e dei lavoratori già occupati. Non a caso 70mila lavoratori della distribuzione alimentare californiana hanno da poco concluso un lunghissimo sciopero durato 20 settimane, in cui il previsto arrivo di Wal-Mart è stato il tema centrale: molte società del settore avevano chiesto sacrifici sul piano della retribuzione e dei benefit sostenendo di non poter altrimenti competere con il nuovo venuto (che paga meno i suoi dipendenti, non sindacalizzati). In sostanza: problemi di traffico e urbanistici, pressioni al ribasso sui salari e sulla copertura sanitaria e chiusure di business renderebbero WalMart più una minaccia alla rivitalizzazione dell’economia locale che non una benedizione per i cittadini-consumatori. La California, comunque, non è nuova a iniziative referendarie per bloccare situazioni di stallo: ne ha fatto le spese, recentemente, lo stesso ex Governatore Gray Davis. L’esito della consultazione appare decisivo non solo per la cittadina interessata: in caso di bocciatura dell’iniziativa, il fronte anti Wal-Mart in tutta la California sarà rafforzato e i regolamenti in via di definizione nelle maggiori città e in vari centri minori — che impongono severe restrizioni ai grandi centri commerciali o li bloccano del tutto — dovrebbero moltiplicarsi. Una vittoria, invece, spianerebbe la via all’invasione californiana di un gruppo che, per ora, è riuscito solo ad aprire un centro nella remota e semi-desertica località di La Quinta.

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