3/4/2003 ore: 11:28
"Cultura&Informazione" Né con Hitler né con Churchill? - di A.Arbasino
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NÉ CON HITLER NÉ CON CHURCHILL?
La buona borghesia avrebbe poi presto aggiunto "neanche con Stalin"
Negli anni Cinquanta si commentavano le bottiglie di cognac sui tavolini dei miliardari musulmani in via Veneto Sono molte le differenze con l´oggi Mancava il gusto per l´horror, il terrore, il killer e il macabro ALBERTO ARBASINO
Si imparava dal grande Gustave Flaubert che una invariabile «stronzaggine» (lui la chiamava bêtise) continua a ripetere luoghi comuni immutabili. Dunque, perfettamente riconoscibili. Dal sommo antropologo Lévi-Strauss (non certo un razzista) si apprese a considerare «costanti» anche i peggiori connotati purtroppo caratteristici nei vari popoli. La prestigiosa scuola parigina delle «Annales» ci obbligava a lasciar perdere l´Effimero e il Transeunte, dando piuttosto peso alle «lunghe durate», in base a dati e fatti economici e statistici, obiettivi e incontestabili. «Ogni passione spenta!». Altre scuole, intanto, ci forzavano a subire la gravità e l´importanza dei miti e dei feticci sadomaso nelle follie storiche dei capi perversi e dei popoli pecioni. E vari docenti insigni facevano risalire tutti i guai principali del Novecento alle illusioni opportunistiche e geografiche dei politici inglesi e francesi che per liquidare ogni grande guerra (e senza prevedere le prossime) imponevano stati multietnici artificiali come la Jugoslavia o l´Iraq. Mettendo forzosamente dentro una stessa gabbia le etnie e le tribù che tradizionalmente si detestano e si massacrano. Mentre i congressi ballano, i ragazzi anche, le burocrazie internazionali scartabellano, i mercanti d´armi vendono. Nel corso di una vita novecentesca media, però, i capovolgimenti e capitomboli storici sono stati anche più impressionanti delle numerose capriole individuali, peraltro frequentissime. Mentre vari caratteri etnici mutavano trucchi e maschere per sopravvivere (sotto sotto) intatti. Per la famosa serie «Trasformismo e Neutralismo», basta infatti osservare che questi medesimi termini, già tanto biasimati dagli storici italiani sia fascisti sia antifascisti come vergogne esecrabili, appaiono rivalutati oggi quali bravi espedienti italiani «scafati» nel «survival» con mediazioni e compromessi. (Del resto, altro che rococò alla Talleyrand: «business as usual», e «les affaires sont les affaires», ripetono i vari popoli). E così, dopo i milioni di morti fra il 1870 e la Grande Guerra, i rapporti già tremendi tra Francia e Germania continuarono a migliorare: già nella Parigi occupata ma non bombardata nella seconda guerra mondiale, poi con De Gaulle e Adenauer e le comunità europee. Cioè, «una pietra sopra» e un «voltar la pagina» (dopo le battaglie, le stragi, i collaborazionismi, le pene capitali). Al contrario del «per non dimenticare» degli ebrei dopo Auschwitz; e dei dubbi sul «nessuno tocchi Caino» dopo l´uccisione di tanti Abeli. Ma sono apparse soprattutto spettacolari le giravolte storiche in Algeria, con i trionfi di Chirac nel cuore stesso della rivolta antifrancese, dell´impegno parigino di Sartre e degli intellettuali, del film sulla Battaglia d´Algeri... Mentre in Egitto, negli stessi anni Cinquanta, proprio l´America bloccava la spedizione anglo-francese di Suez, con un conflitto di interessi colossali. E intanto a Roma si commentavano le bottiglie di cognac sui tavolini dei miliardari musulmani nei night-club della Dolce Vita. Girando l´Europa dell´Est, si notavano piuttosto le file di stendardi con «Liberate Angela Davis» nelle capitali delle prigioni politiche e delle invasioni sovietiche. Invece, ad Amsterdam o a Copenhagen, capoluoghi della liberazione sessuale, si enfatizzava la produzione di pornografia carceraria a base di orge fra guardie gay e prigionieri sexy, in galere innominabili. Priva di qualunque birignao o nostalgia, la nostra memoria storica italiana, va quindi basata su un´abbondante documentazione obiettiva: storica, giornalistica, fotografica, cinematografica. Recuperando i tristi ricordi infantili degli scolaretti intorno al 1940. L´antiamericanismo italiano era tale e quale: sentito, diffuso, e non provocato solo dal fascismo e del Duce. (Tutt´al più, osservavano i notabili, Mussolini trincia giudizi sugli Stati Uniti senza esserci mai stato. Come quegli americani che discettano sull´Italia senza conoscerla. Obiettavano altri: Mussolini è sempre stato un giornalista di successo, a differenza di Hitler. Quindi, come fondatore o direttore di quotidiani, deve avere le informazioni e anche l´autorevolezza). I ricordi infantili e scolastici rimangono inculcati, lo si sa. Una quantità di manifestazioni, sfilate e cortei con motti e slogan e gagliardetti e labari e vessilli, tra finestre imbandierate e stendardi sui balconi, con insegnanti che inneggiavano contro l´Inghilterra e l´America, cappellani militari che spingevano a combattere volontari, tutti i giornalisti più popolari che ripetevano «e se non partissi anch´io, sarebbe una viltà». Alla radio gli inni dei sommergibili; e i vignettisti di successo con «Re Giorgetto d´Inghilterra - per paura della guerra - chiede aiuto e protezione - al ministro Ciurcillone». Le fiaccolate, allora, erano soprattutto dannunziane o religiose. La vera differenza era forse che non si sfasciavano le vetrine e le automobili: erano poche, e c´era il regime. E quindi anche alla partita non c´erano tafferugli o vandalismi. Le scritte di «W» o «M» sui muri, col carbone o col gesso, riguardavano solo le squadre o la femmina. La bellicosità italiana veniva tutta indirizzata all´esterno del Paese, e fondata sull´Amor di Patria: per ammortizzare così i conflitti interni. Importantissimo: non si parlava mai di petrolio, allora, ma soprattutto di carbone e di materiali ferrosi. La Società delle Nazioni veniva sottovalutata come una lega per la diffusione dell´esperanto. Anche vituperata (in quanto «succube delle demo-giudo-plutocrazie») a causa delle «inique sanzioni» comminate all´Italia per la guerra all´Etiopia. E quindi ai danni dei nostri eroici legionari impegnati nel portare la civiltà nel Continente Nero. E allietati, nel Canale di Suez, dalle canzoni di Maria Uva, popolare canzonettista italica a Port Said. Nelle case, quasi ogni giorno: «Carolina, metti fuori la bandiera». Le vecchie sapevano bene dove agganciare gli anelli all´asta, zufolando (come nel Risorgimento) «Addio mia bella, addio». Ma la «buona borghesia», prima diceva «né con Hitler né con Churchill» e poi «neanche con Stalin», e quindi sotto le bombe, fra le macerie e i morti, si chiedeva se valesse la pena di subire tanti danni e tanti lutti solo per liberarsi del Duce. Il Papa fu poi biasimato per i suoi silenzi sugli olocausti. Ma sarebbe stato inteso o frainteso dalle sue pecorelle di massa, se avesse protestato su Auschwitz in mezzo ai cadaveri italiani massacrati nei bombardamenti di Milano e Bologna e Genova, e fra i rastrellamenti sull´Appennino? E quanti parroci o cardinali avrebbero osato lodare il pacifismo e sfidare il nazismo, davanti a una «piazza italiana» di immense folle giovani che manifestavano entusiaste per la guerra, praticamente ogni sabato? Poteva essere pericoloso anche ascoltare i dischi americani tipo «Blue Moon» in casa: se i balilla sentivano, potevano tirare sassate. Contestando magari anche le canzoni francesi. Parecchi appaiono oggi i tratti differenziali. Non c´era la televisione. Mancava ogni gusto per l´horror, il terror, il killer, il macabro, il sangue. Mancava una opposizione in grado di fare il proprio mestiere anche con una buona rendita di posizione rispetto al regime: gli oppositori venivano perseguiti. Mancava una cultura del neutralismo, una retorica del pacifismo, anche aggressivo; né si era recuperata la coscienza del «panem et circenses» che scarica i conflitti soprattutto nel «tifo» domenicale e nei cortei con frange violente, senza rischiare di venir colpiti dall´estero. C´erano però molti più morti civili che oggi: centinaia ogni notte, sotto le bombe; e milioni alla fine delle guerre. Altri aspetti possono apparire più convenzionali. Le gite e sagre della contestazione e della protesta romana, con la venerazione delle icone (Caduti e Martiri), oggi vengono studiate dagli esperti della «festa carnevalesca», della «cultura dell´effimero», delle «trasgressioni polimorfe». (Ma questo c´era già nel Diavolo in corpo di Raymond Radiguet: la Grande Guerra come Grande Vacanza per i giovani). Accanto alla festa, una costante «elaborazione dei lutti»: culti e studi (oggi) sulle stragi poco note, le carneficine da convegno e da festival, i sadomaso e i delitti da non perdere. Nelle scuole medie, allora, oltre alle solite lezioni e ai discorsi antiangloamericani dei presidi, ogni giorno quindici minuti supplementari si dovevano dedicare alla lettura integrale a puntate di Parlo con Bruno, un libro del Duce sul figlio morto in un incidente aviatorio. E in aula magna, i cappellani militari esaltavano gli eroismi e le medaglie d´oro dei «ciechi di guerra» (che mai nessuno chiamò «non vedenti di guerra»). Dopo due interventi militari italiani contro gli ex-alleati germanici, nelle due guerre mondiali del Novecento, il pubblico italiano ha ancora il diritto di sorprendersi perché gli ex-antiamericani diventano pragmatici quando sono governativi? Oppure, quando gli ex-filoamericani fanno della Realpolitik in base alle rendite di posizione dell´opposizione? A quali «pro» o «contro» (italiani) sarebbe toccato di far cortei, quando i parà anglofrancesi calavano a Suez, o quando i tank sovietici invadevano Budapest e Praga? ...Altro che Vietnam! «Era subito polemica», sia pure a bassa voce, già fra italiani e italiani, quando gli americani e i tedeschi si battevano per Roma, dopo lo sbarco di Anzio... E così, i corsi e ricorsi storici colpiscono ancora? O i caratteri antropologici si fanno talvolta sorprendere con la pistola fumante? (Commentavano, le vecchie nonne: qui si ricorda male, e si dimentica presto). |