2/3/2004 ore: 11:15
Torino. Quando il mobbing è donna
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TORINO
MARTEDÌ 2 MARZO 2004 |
Pagina II |
TUTTI I NUMERI Quando il mobbing è donna La denuncia Cgil: "Fatte fuori perché più scomode" Lo sportello del sindacato ha esaminato in 4 anni oltre seicento esposti. In testa il comparto sanità, seguito da commercio e industria A un´infermiera negato il diritto di accudire la figlia malata grave
Sui 600 casi esaminati finora dallo sportello torinese, 473 si sono verificati nella pubblica amministrazione, soprattutto nel comparto della sanità. La classifica del mobbing vede al secondo posto la categoria del commercio e al terzo quella dei metalmeccanici. Laura Seidita, della segreteria regionale della Funzione pubblica Cgil spiega che «spesso il mobbing riguarda le donne perché sono i lavoratori più scomodi per le aziende». A causa degli impegni familiari o per una diversa concezione del lavoro sono infatti le donne a chiedere più congedi e un più frequente ricorso al part time. Così è accaduto a Maria, dipendente di una clinica privata torinese assunta quindici anni fa come ausiliaria del reparto di cardiochirurgia. Maria, delegata sindacale, ha una figlia gravemente ammalata, con un´invalidità del 100 per cento. Due anni fa aveva chiesto di poter lavorare a orario ridotto per poter seguire la figlia. Ma quando, dopo la separazione dal marito, la donna ha chiesto di tornare a tempo pieno, l´azienda le ha negato questa possibilità. E solo dopo una lunga battaglia sindacale è riuscita ad ottenere quello che era un suo diritto. «La vicenda - commenta Seidita - è emblematica perché Maria era per molti aspetti una lavoratrice scomoda: la legge le garantisce la possibilità di usufruire di permessi per curare la figlia e la sua attività di sindacalista non è gradita alla direzione aziendale». Ma la vera battaglia dei prossimi anni sarà contro quello che gli esperti chiamano «mobbing strategico». Una pratica di discriminazione sistematica utilizzata dalle aziende per spingere i dipendenti a licenziarsi. È quel che è accaduto a Anna, dipendente di un´azienda commerciale della periferia torinese, costretta a continui trasferimenti lontano da casa nella speranza che abbandonasse il lavoro. L´obiettivo dell´azienda sembrava raggiunto quando Anna è stata convinta a trasferirsi in un nuovo negozio controllato dallo stesso datore di lavoro ma con una diversa ragione sociale. Poco tempo dopo il trasferimento Anna è stata licenziata per cessata attività. Impugnando il licenziamento la lavoratrice si è vista riconoscere il suo diritto ed è stata risarcita. «Il vero problema - ha detto ieri il segretario della Cgil piemontese, Vincenzo Scudiere - è che spesso, anche quando vincono le cause, sono gli stessi dipendenti a non voler più tornare nel luogo di lavoro dove hanno subito le discriminazioni». Per questo la cura migliore del mobbing, riconosciuto come malattia professionale da un decreto del 2000, è nella prevenzione. Nei contratti della pubblica amministrazione è già prevista la creazione di un osservatorio paritetico tra azienda e sindacati per cercare di evitare il diffondersi del fenomeno. E da qualche tempo anche nei corsi di formazione dei delegati sindacali il capitolo mobbing è presente: «L´arma migliore - dice Seidita - è quella dell´informazione. Molto spesso i lavoratori mobbizzati sono quelli che conoscono di meno i loro diritti».
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