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27.06.2002 Sinistra, gli intellettuali stanno con la Cgil di Bruno Gravagnuolo
Intellettuali e sindacato, saperi e lavoro. Un’alleanza ormai consolidata, che mercoledì al Centro congressi di Via Frentani a Roma ha inaugurato la sua seconda fase. Dopo l’adesione-manifesto allo sciopero del 23 marzo scorso, che aveva varato «il patto» al Residence Ripetta. Ora si entra nel vivo, nel cuore della battaglia attorno alla controriforma del mercato del lavoro e dell’art. 18, alla vigilia del possibile accordo tra governo e Cisl e Uil. E con la Cgil che rilancia. Battaglia difensiva e isolata? Tutt’altro. E ieri lo si è visto, in occasione dell’incontro- seminario sul tema «Lavoro e cultura nella società in evoluzione». Perché il nuovo fronte comune lavoro/cultura alza il tiro, ciascuno dalle distinte postazioni, senza organicismi e neoservitù politiche, come accade di questi tempi a destra. Alza il tiro l’alleanza, sul modello di società. Sui valori. Sull’analisi dei mutamenti indotti dal ciclo globale del capitalismo attuale. E al primo posto, innanzitutto c’è il lavoro. Come sostegno materiale della libertà. E quindi: libertà e lavoro, binomio inscindibile. Lo diceva proprio Sergio Cofferati, a conclusione di una mattinata affollatissima e densa di contributi (e tra gli osservatori illustri anche Eugenio Scalfari, attentissimo in platea) dopo le relazioni di Asor Rosa, Luciano Gallino, Marina Piazza. E dopo gli interventi di Mario Tronti, Furio Colombo, Umberto Eco, Andrea Ranieri, Laura Pennacchi, David Bidussa. Diceva in conclusione Cofferati: «La sinistra ha rinunciato a tenere in campo la propria idea di libertà, che non è individualismo ma la libera azione dei singoli individui. In una situazione di regole condivise». Nitido il riferimento all’attenuazione della centralità del lavoro in Cofferati. Alla sua sparizione culturale, e conversione in fatto residuale, laterale. Da momento centrale della «autorealizzazione della persona, a espediente per conquistare un reddito...». Perciò, «lavoro povero, subalterno, tagliato fuori dal futuro». Che riproduce la sua marginalità. E all’insegna di una «modernizzazione» omogenea agli imperativi aziendali di un mercato senza regole. Che sgancia il sindacato e la politica dai suoi riferimenti materiali. S’apre la giornata con l’intervento di un lavoratore dell’azienda catering aeroportuale di Fiumicino. Ceduta all’ex Ccd Ligabue, fatta in cento pezzi e poi dismessa: 400 lavoratori senza prospettiva. Lottano con una spilla bianca e nera in petto. A significare la precarietà, tra il bianco del lavoro intravisto e il nero dell’espulsione dal mercato. Spilla slogan. Emblema psicologico della nuova geografia del lavoro flessibile dell’era post-fordista. Subito dopo l’introduzione di Mario Tronti, parla Alberto Asor Rosa. In dieci punti fissa passato e presente, all’insegna di un ossimoro: «l’anarchia autoritaria» di questo ciclo economico. Ciclo che minaccia di plasmare a sua immagine la politica e le istituzioni. Nell’analisi di Asor il berlusconismo «è la variante italica e stracciona della distruzione del Welfare post-bellico», scaturito dal compromesso tra democrazia e capitalismo. Hanno pesato per Asor il crollo dei sistemi pianificati. Insostenibili, ma puntello indiretto dello stato sociale in Europa. E poi «le innovazioni di processo post-fordiste», che hannno scardinato i partiti e le loro basi sociali: «Errori soggettivi vi sono stati- sostiene - si è assecondato infatti quel trend, come fosse una legge di natura. Ma anche pressioni oggettive. Poiché è mutato l’assetto del mondo». Intanto però la destra è all’attacco, e spinge per un mondo senza coesione. Per «una modernità fluida e molecolare», senza attriti né soggetti capaci di resistere e progettare la vita. Con «i valori ormai ridotti alla misura dello scambio di merce». «Individui che contrattano tutto, ma privi di potere»: ecco per Asor l’equazione dominante del momento. Equivalenza che annulla la politica, e che installa l’economia al posto di comando. Cancellando, tendenzialmente, divisione dei poteri e garanzie. E inaugurando un’era post-liberale, astensionista e plebiscitaria. Domanda di Asor: «Può la politica ripartire dal sindacato, dagli interessi organizzati per rilanciarsi?». Ricominciare a tessere una visione generale, e trasformare gli interessi in valori?
A seguire, la relazione di Luciano Gallino. Sfata il sociologo le meraviglie del «capitalismo informazionale». Dice: «La maggior parte dei lavori(la fanteria) sono poveri di qualità, e poi in Italia il 25% delle imprese è al nero, con trionfo di gerarchia aziendale e fordismo più classici». Vera società della conoscenza sarebbe per Gallino quella «che immette la formazione dentro il lavoro», che ne incoraggia il ruolo in chiave partecipativa. E non ne scarica il gravame ossessivo sui lavoratori, anche nel «tempo di vita». Marina Piazza, Presidente della Commissione pari opportunità, calca l’accento sull’«invisibilità delle donne nel lavoro». E sulle «politiche di conciliazione», che dovrebbero saldare tempi di vita e tempi di lavoro: congedi, flessibilità dal basso, orari, tempi della città, servizi delle imprese ai singoli. Terreni utopici per imprese grette come quelle italiane, refrattarie all’assunzione di ogni responsabilità verso la comunità. Furio Colombo, direttore dell’Unità, evoca il film di Kean Loach sui pulitori di grattacieli, bravi a resistere e a ribellarsi ma alla fine isolati nella foresta della sky-line. E richiama l’attenzione sul legame necessario tra politica e sindacati: «Il partito democratico Usa, prima di divenire un’agenzia d’opinione - diversa ma simmetrica ai repubblicani - aveva la sua forza di massa nel legame coi sindacati. Dopo l’offensiva reaganiana sui controllori di volo s’è come liofilizzato». Umberto Eco bersaglia invece le teorie dell’«intellettuale organico» o tutto politico: «Il modello buono è Aristotele, che ad Alessandro Magno dava strumenti di conoscenza e non utopie “chiavi in mano” alla Platone. O cavalli di Troia come Ulisse». Laura Penacchi denuncia la «regressione pre-borghese e patrimonialista del berlusconismo». David Bidussa rilancia la memoria storica dei soggetti e delle lotte del lavoro. Andrea Ranieri descrive «il filo nero tra attacco alla scuola pubblica e flessibilità che deprime la qualità di beni e servizi».
Infine Cofferati. Si dichiara d’accordo con molte delle cose dette da Asor Rosa: «Sì, oggi l’Europa è il cuore dello scontro tra due mondi. Quello di destra, che vuol trasformare il Continente in un mercato che detta le sue regole. E quello opposto, che si batte per una nuova patria civica e sociale». Cofferati demolisce alcune parole-idolo: «flessibilità, sussidiarietà». La prima - dice - «non è un modo per innovare i prodotti e rilanciare la qualità delle relazioni economiche. Soltanto una maniera per schiacciare i singoli, liquidando coesione sociale e regole condivise». La seconda, una via surrettizia «per scalzare dalla periferia il Welfare. Non già per integrare le funzioni primarie dello stato». Altro punto di polemica forte in Cofferati - verso Cisl, Uil e governo - è il ruolo del sindacato: «Si vuole snaturare la sua funzione contrattuale. Riducendolo ad agenzia corporativa e subalterna di indirizzi dati». Chiude, il leader Cgil (tale «ancora per poche ore») sull’Europa dei diritti: «Nel silenzio dei commentatori liberali stiamo difendendo contro la destra il modello democratico del paese: su scuola, lavoro, informazione, giustizia. Il modello dei diritti sociali sancito a Nizza». Già, nel silenzio dei comentatori liberali. E nel frastuono degli attacchi violenti alla Cgil di Maroni, Alemanno e Giovanardi, che la accusano di eversione per isolarla. C’è un contropiano politico nel «testamento-replica» del Cinese? Non ancora. Ma le basi ci sono, e si vedono.
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