27/6/2007 ore: 10:47
Scalini ogni 18 mesi: trattativa a oltranza
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Scalini ogni 18 mesi trattativa a oltranza e Rifondazione dicono no alla nuova ipotesi ROMA Un meccanismo a «scalini» per rendere più graduale l’età minima per la pensione. Governo e sindacati confederali cercano l’intesa ormai da un anno: come «ammorbidire» lo scalone Maroni, ovvero il meccanismo che in base alla legge varata nel 2004 dal centro-destra, dal primo gennaio 2008 farebbe salire l’età per il pensionamento da 57 a 60 anni. La proposta avanzata dal governo all’ora di cena (e respinta dalle sigle) prevede che dal primo gennaio 2008 possano andare in pensione tutti coloro che avranno 58 anni di età e 35 di contributi. Da allora, e ogni 18 mesi, si doveva raggiungere la soglia dei 62 anni previsti dalla Maroni. Nella notte i sindacati e Rifondazione erano disposti a discutere di uno scalino ogni due anni: in questo caso i 62 anni si raggiungerebbero nel 2016 e non più nel 2014. Sul tavolo c’è poi la richiesta di abolire lo scalone per alcune categorie di lavoratori. Da tempo si ipotizzava una lista di «lavori usuranti», mentre la soluzione individuata limiterà la platea a coloro che lavorano su tre turni nelle 24 ore, dunque di notte: il caso tipico sono i metalmeccanici delle grandi imprese e gli infermieri. Per loro dal primo gennaio sarà possibile andare in pensione ancora con 57 anni e 35 di contributi. Diminuiranno le «finestre» per l’uscita dal lavoro: oggi sono quattro, scenderanno a due. Sembra decisa la revisione dei cosiddetti «coefficienti di trasformazione», ovvero delle percentuali in base alle quali si calcoleranno le pensioni dei più giovani. Una commissione di lavoro verificherà la corrispondenza fra i coefficienti e l’andamento demografico e del mercato del lavoro. Solo allora ci potrà essere il «taglio» previsto dalla legge Dini. Resta tutto uguale per le donne: per loro le regole su anzianità e vecchiaia restano quelle in vigore. Il partito di Giordano e Bertinotti e la Cisl vorrebbero graduare lo «scalone» con un sistema a «quote», ovvero un mix di contributi ed età a partire dal 2010: l’ipotesi più gettonata prevedeva di partire da «quota 95». I tecnici del Tesoro hanno ribadito il loro no. Sarebbe tecnicamente complicato calcolarne i maggiori costi. In quel caso infatti chi ha maturato più di 35 anni di contributi potrebbe lasciare il lavoro prima dei 60 anni. La questione dei maggiori costi per «ammorbidire» lo scalone è lo scoglio della trattativa. Il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa ha accettato l’idea di far salire la spesa, purché le maggiori risorse vengano quasi tutte reperite all’interno del sistema previdenziale. Rifondazione insiste perché i trattamenti pensionistici di parlamentari e dirigenti d’azienda vengano equiparati a tutte le altre categorie. Ma non basterà comunque a compensare l’aggravio degli «scalini» sul sistema previdenziale. Risparmi più consistenti arriveranno dall’accorpamento degli istituti previdenziali: i sindacati sono contrari ad una «super Inps», ma hanno detto sì ad una forte razionalizzazione delle strutture. Sul tavolo resta poi aperta la questione delle pensioni basse. Il governo ha stanziato 1,3 miliardi ed ha promesso aumenti medi pari a 40 euro al mese per chi riceve un assegno fra i 500 e i 600 euro ed ha versato almeno 20 anni di contributi. Ma all’ora di cena - dicevano i sindacalisti - i tecnici del Tesoro non avevano ancora messo a punto una tabella sui due milioni di pensionati a cui applicare il beneficio, compresa la una tantum da 250 euro. Dal Tesoro arrivava l’accusa opposta: i problemi sarebbero sorti dalla richiesta dei sindacati di allargare la platea a più di quattro milioni di persone. In quel caso il beneficio medio sarebbe «crollato» ad una media di 20 euro a pensionato. Vero o meno, la diatriba ha confermato che il clima, nonostante la volontà di chiudere, era piuttosto teso. |