Quote rosa Donne al vertice, default dimezzati
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Per fortuna ci pensa la natura. E per fortuna c’è la moda. Perché se non ci fossero nè la natura nè il settore della moda, quanto a donne al vertice saremmo messi ben peggio di quel che si è. I grafici che pubblichiamo in pagina sono illuminanti. Le imprese che hanno almeno il 30%di donne nel consiglio di amministrazione continuano a essere stabili negli anni attorno (sotto) al 12%. In sostanza, quasi il 90%delle società italiane è completamente lontano dagli obiettivi che il Parlamento sta cercando di introdurre per le aziende quotate e gli enti pubblici. Eppure i dati dimostrano senza possibilità di dubbio che le aziende che raggiungono la soglia del 30%vanno meglio, decisamente meglio delle altre. Addirittura, si dimezzano le probabilità di insolvenza quando la parola «presidente» e «amministratore delegato» è declinata al femminile. Se si entra un po’ più nel dettaglio e se si guardano le società che si piazzano ai primi posti si vede che sono soprattutto le società a controllo familiare e le aziende della moda e del lusso ad avere una quota importante di donne in consiglio. Sono, insomma, figlie di imprenditori e figlie e manager del tessile abbigliamento. Anche se non mancano le eccezioni. In Parlamento Come si sa è in discussione in Parlamento la legge per introdurre anche in Italia le cosiddette «quote rosa» , un tetto del 30%riservato al genere meno rappresentato, che attualmente sono le donne. Dopo un avvio in velocità alla Camera, la legge bipartisan firmata da Lella Golfo (Pdl) e Alessia Mosca (Pd) sta avendo un percorso accidentato in Senato a seguito della richiesta della Confindustria di Emma Marcegaglia, dell’Abi di Giuseppe Mussari e dell’Ania di Fabio Cerchiai di una sua introduzione «al rallentatore» e con sanzioni decisamente meno efficaci di quelle previste dal testo di legge. Richieste che sono state accolte dal governo tra molte polemiche anche all’interno dello stesso Pdl. In attesa di conoscere che esito avrà la ricerca della mediazione che è in corso e di cui si saprà questa settimana, abbiamo provato a capire che impatto avrebbe questa legge se dovesse essere estesa a tutte le società, non solo a quelle quotate e a controllo pubblico. E abbiamo cercato di capire quali sono e come vanno le aziende che il 30%già lo rispettano. Come si è detto, quando c’è il 30%è molto spesso «un caso» , dipende cioè dal numero di figli maschi e figlie femmine che sono nate in una famiglia imprenditoriale (ma non va dimenticato che non troppo tempo fa le figlie venivano liquidate con immobili e in denaro, il fatto che oggi entrino in azienda e gestiscano il gruppo è un bel passo avanti). Un discorso a parte merita la moda, dove non sono poche le amministratrici delegate e le consigliere di amministrazione: è il caso di Diesel (Daniela Riccardi, ad), di Lvmh Italia (Gabriella Scarpa, ad) e di Dolce &Gabbana (Cristiana Ruella, direttore affari generali e consigliera di amministrazione). Lo studio L’indagine è stata realizzata dall’ufficio studi di Cerved Group su un campione delle 2 mila imprese italiane di maggiori dimensioni, con fatturato oltre i 100 milioni di euro nel 2008 o nel 2009. Sono state escluse le imprese con l’amministratore unico, quelle con valori anomali del Roe (l’indicatore della performance aziendale) e quelle con un bilancio di tipo diverso da «industriale, commerciale e di servizio» . «Siamo partiti senza avere ipotesi e ci siamo limitati a far parlare i numeri — dice Alessandra Romanò, direttore operativo Databank, divisione Cerved Group —. La prima cosa che abbiamo notato è che la percentuale di donne non varia negli anni. A una sensibilità crescente su questo tema non corrisponde un trend di crescita nella presenza. Ma il vero dato al quale bisogna prestare attenzione — prosegue Romanò — sono i risultati finanziari: i numeri dicono che dove ci sono donne al vertice le performance sono migliori e questo è un dato stabile in tutto il triennio che abbiamo esaminato. Il dato sull’insolvenza, d’altra parte, non dà adito a equivoci» . Complessivamente, sulle 2 mila imprese esaminate, il peso delle donne tra gli amministratori tra il 2007 e il 2010 è rimasto stabile attorno al 9%(dal 9,1%del 2007 e 2008 al 9,2%del 2009 e 2010). Anche il numero delle società che hanno almeno una donna nel proprio consiglio di amministrazione non si è modificato nell’ultimo quadriennio: erano il 38,8%nel 2007 ed erano il 38,8%lo scorso anno (con una discesa sotto il 38%nel 2009). I numeri diventano significativamente più piccoli quando si vanno a cercare le imprese che hanno già il 30%di cda al femminile: meno del 12%nel 2010. Una vera stranezza se si vanno a valutare i risultati. Tutti gli indici utilizzati (oltre al Roe, il Roi c h e i n d i c a l a redditività e l'efficienza economica della gestione caratteristica, e il Roa, ovvero il risultato prima della gestione finanziaria sul totale dell’attivo) sono migliori per le aziende a maggior presenza femminile. Là dove il cda è al 30%«rosa» , nel triennio 2007-2009 il Roe è dell’ 11,6%rispetto al 9,1%dei cda con meno del 30%di donne; il Roe è rispettivamente 4,8%contro 2,9%e il Roa 6,9%contro 5,0%. Cerved ha cercato la «prova del 9» valutando le probabilità di insolvenza. Come si vede nel terzo grafico si nota che se vi sono donne nel management il rischio scende dal 7,1%al 6,0%, ma addirittura quasi si dimezza se vi è un presidente o un amministratore delegato donna: 6,7%contro 3,8%. Il confronto è stato fatto a parità di dimensione aziendale, di settore di operatività dell’impresa, di regione e di altre variabili statisticamente significative. Ed è costruito su modelli per i quali sono state impiegate informazioni che coprono un arco temporale di 10 anni e oltre 6 milioni di osservazioni relative a più di 1 milione di imprese. La conclusione è una: «La presenza di donne al vertice dell’impresa riduce il rischio di default» .