10/10/2007 ore: 11:16
Posto sicuro, ma flessibile ( R.Mannheimer)
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il test del referendum e più spazio al merito Le richieste per migliorare la situazione sono, per certi versi, contraddittorie e riflettono la forte contrapposizione di orientamenti politici all'interno di una così vasta categoria sociale. Come nel resto della popolazione si richiede un mercato del lavoro che tenga conto soprattutto delle necessità dei lavoratori. Caratterizzato in primo luogo dalla garanzia di sicurezza. Solo poco più del 10% degli operai indica di preferire un lavoro «meno sicuro, ma con più prospettive di reddito»: la stragrande maggioranza (ma è così, seppure in misura meno accentuata, nel complesso della popolazione) dichiara di optare per un lavoro «sicuro, anche se meno redditizio». La prospettiva della stabilità appare insomma, specie in questo periodo, assolutamente prioritaria, in particolare tra gli operai. Al tempo stesso, il complesso degli operai italiani mostra una netta frattura di visioni riguardo alla questione della flessibilità del lavoro. Così, la maggioranza relativa dichiara (coerentemente con quanto accade tra gli altri lavoratori, ma contrariamente a quanto si rileva tra i non occupati) di preferire un mercato del lavoro che consenta «maggiori possibilità di licenziamento ma che favorisca stipendi più elevati». Anche se la minoranza relativa che preferisce «meno possibilità di licenziamento, anche a costo di stipendi più bassi» è assai consistente e supera il 40%. C’è, insomma, un orientamento spesso prevalente verso la maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Con una richiesta assai estesa di un rinnovamento generazionale ai vertici delle aziende e dello Stato: oltre il 70% ritiene che questi ultimi non debbano superare i 70 anni di età, se non in casi eccezionali. Alla luce di tutto ciò, non sorprende il fatto che la maggioranza relativa degli operai italiani possa forse essere definita «sarkoziana», almeno dal punto di vista del mercato del lavoro. Ad esempio, al quesito riguardo alla possibilità che ciascuno possa «fare gli straordinari che vuole, guadagnando così di più», la maggioranza relativa (che raggiunge quasi la metà dei lavoratori interpellati) risponde affermativamente. Anche se, ancora una volta, quanti ritengono che sia meglio «fissare il numero massimo di ore di lavoro, proteggendo così i lavoratori da richieste eccessive» sono quasi altrettanti. In realtà, in questo come in altri casi, le differenze di giudizi non dipendono tanto dalla collocazione socio-professionale, ma dall’orientamento politico generale (oggi non più ideologico ) che porta gli operai a essere, come tutte le altre categorie sociali, un elettorato spaccato all’incirca a metà. Anzi, in tre parti, dato che bisogna considerare, anche tra gli operai, l’ampia quota di indecisi e potenziali astenuti, determinante per l’esito del voto. Che non è più scontato in nessuna classe sociale. Già negli anni ’60 del secolo scorso, gli studi più accurati mostravano come la percentuale di operai che votavano per il Pci non fosse poi molto distante da quella dei fedeli alla Dc. Ma oggi la caratterizzazione «di sinistra» della classe operaia sembra essersi ancora più attenuata, anzi quasi invertita. Occorre precisare che ci riferiamo alla classe operaia in senso allargato, comprendente cioè non solo i lavoratori della grande industria, ma il complesso degli operai e subordinati di tutta la miriade di aziende, piccole e piccolissime, del nostro paese. Già in occasione delle elezioni del 2006, grossomodo il 40-45% di costoro votò per il centrodestra. Oggi, l’analisi delle intenzioni di voto mostra che il favore per il centrosinistra si è ulteriormente eroso, sino a portare, tra gli operai, ad una sostanziale parità tra le coalizioni. |