28/11/2007 ore: 11:20
Più lavoriamo,meno prendiamo.Non solo nella Ue
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Pagina 9 - capitale &lavoro nel 2007:orari di lavoro più lunghi in cambio di salari più bassi.E un minatore,in Polonia, guadagna più di uno in Italia Eppure vantiamo un «costo del lavoro per unità di prodotto» tra i più alti. Ragion per cui Confindustria, e i suoi editorialisti sulla grande stampa, continuano a chiedere di ridurre a nulla il livello nazionale della contrattazione collettiva («solo il recupero dell’inflazione») e affidare tutto il recupero salariale alla contrattazione aziendale (che si fa solo nel 25% delle imprese italiane), agganciandola alla «produttività». Già, la produttività. In Italia è praticamente ferma. Si chiede perciò più flessibilità a chi lavora. Mentre è noto che può crescere solo là dove l’impresa riesce a impiegare tecnologie a più alta intensità di capitale (più prodotto nella medesima unità di tempo, magari con minor lavoro). Ma di questo – vedi l’editoriale di Pietro Ichino, ieri, sul Corsera –è vietato parlare. Eppure tutti sanno che l’impresa italiana è prevalentemente nana, storta e «inefficiente»; perché gioca tutto sull’estrazione di lavoro senza troppi investimenti. «Padroni» troppo piccoli per ambire a diventare industriali; modesti – magari feroci – sfruttatori di manodopera per farsi una villetta nell’hinterland e la Bmw. Senza orizzonti di gloria. La riprova si ha guardando all’aumento dell’occupazione (+1,7%, meglio della media Ue), senza che il Pil cresca in corrispondenza. Ciò nonostante il tasso di occupazione generale resta basso (58,4%), ben lontano dall’obiettivo del 70% fissato dall’«agenda di Lisbona». E peggio di tutti stanno le donne, i giovani, gli anziani. E dire che largheggiamo in lavoro precario (quello temporaneo è cresciuto dal 26,6 al 40,9% in soli sei anni), grazie al «pacchetto Treu e poi alla legge 30. Che questo «modello di sviluppo» sia un’autostrada verso la decadenza sta scritto nei salari. Nell’industria un tedesco (o magari un immigrato turco o italiano) prende il 60% in più (come in Gran Bretagna); in Francia quasi il 50. Poco minori le differenze nelle costruzioni, nei servizi o nel commercio. Un paragone – al ribasso – lo si può fare solo nella corte dei miracoli della ristorazione. Ma gli esempi più eclatanti vengono da altri raffronti. Secondo worldsalaries.org – sito statunitense che sintetizza le informazioni provenienti dagli istituti di statistica nazionali – nel 2005 un minatore polacco percepiva 1.295 dollari in busta paga (netti, insomma); mentre un suo collega italiano si fermava a 1.186. Vero è che qui da noi di minatori – e di ri-sorse minerarie – ne sono rimasti pochi. Ma quei pochi se la passano decisamente male. portoghese 1.787. E un italiano? In media soltanto 1.492. Siamo in coda all’Europa, ovviamente. E può addirittura sembrare consolatorio. Poi però si vede che un insegnante tailandese arriva a 1.216 e uno peruviano a 1.097. E si comincia a guardare con preoccupazione alla «rimonta» degli stipendi di colossi industriali «ad alta produttività» come le Filippine (1.069 dollari) o il Messico (1.018). A quale livello di «moderazione salariale» si può pensare di arrivare? fr.pi.
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