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Così negli Usa hanno vinto le regole della democrazia
di MARIO VARGAS LLOSA
L'INCERTEZZA e la contesa giudiziaria che hanno fatto seguito alle elezioni presidenziali americane e che per cinque settimane hanno mantenuto aperto il dubbio su chi sarebbe stato il nuovo eletto hanno rallegrato i nemici degli Stati Uniti, quella contraddittoria fauna in cui l'estrema destra e l'estrema sinistra si confondono in un odio comune nei confronti del Paese che, per la sua potenza, si trova a capo delle nazioni democratiche. Un quotidiano moscovita aveva proposto che il governo di Putin inviasse uno dei suoi esperti per dare consigli alla Casa Bianca su come organizzare delle elezioni rapide ed efficienti e il Granma di L'Avana si è scandalizzato per lo spettacolo da "repubblica delle banane" che dava il suo vicino. Molti analisti si sono chiesti se quanto è accaduto in queste elezioni negli Stati Uniti non turberà il funzionamento del sistema, provocando una serie di crisi di fiducia nei suoi governanti e nelle istituzioni. E' difficile rispondere a quest'ultima inquietudine, ma è probabile che la risposta sia no. Risolta l'incognita a favore di Bush dalla Corte Suprema, si è assistito negli ultimi giorni a uno sforzo congiunto da parte di democratici e repubblicani per dare un colpo di spugna e simulare una riconciliazione che, del resto, è stata suggellata con la partecipazione al governo di diversi democratici. Orbene, anche se gli Stati Uniti non si sono visti indeboliti né nella loro supremazia militare, né nella loro forza economica dalla confusione postelettorale, è evidente che quanto è avvenuto ha portato alla luce con una forza travolgente una verità che, soprattutto nelle democrazie avanzate che sembrano funzionare bene, è comodo dimenticare: l'imperfezione congenita del sistema democratico. La sua superiorità non proviene dal fatto che sia immacolato ma bensì dal fatto che, come amava ricordare Churchill, tutti gli altri sono molto peggio. Tra le imperfezioni vi sono, indubbiamente, delle gerarchie. Tra le elezioni in Perù dello scorso aprile, truccate con oscena sfacciataggine da una piccola mafia di ruffianelli civili e militari al servizio della meravigliosa coppia Fujimori-Montesinos e il comico pasticcio del riconteggio dei voti in Florida, c'è un abisso. Ciò nonostante, la sorpresa è stata grande, soprattutto per innumerevoli cittadini statunitensi, fino ad allora convinti che, benché tante cose non andassero nel loro paese, l'unica cosa che non poteva succedervi era un simile caos al momento di contare il verdetto degli elettori, e meno ancora che il risultato finale di un'elezione nazionale fosse affidato ai ricorsi e agli interventi degli avvocati, detestati orditori di trame, e ai giudici. Forse, però, quello che ha provocato la maggiore costernazione in una società in cui i tribunali sono considerati, in generale, onesti ed efficienti, e in cui la Corte Suprema di Giustizia gode di un rispetto unanime, quasi sacrosanto, è stato il verificare che, in questo caso, in modo inequivocabile, nell'esprimere il proprio verdetto sul conflitto elettorale, giudici statali e supremi hanno anteposto a qualsiasi altra considerazione le loro lealtà politiche. Non dico che la Corte Suprema avrebbe dovuto favorire Gore, perché la giustizia era dalla sua parte. Così come sono andate le cose - e cioè, data la minima differenza di voti tra i due candidati nello stato della Florida -, non c'era semplicemente modo di determinare con matematica chiarezza chi avesse vinto le elezioni, perché gli argomenti dei due avversari, pur rimanendo contraddittori, avevano lo stesso valore persuasivo. Quello che voglio dire è che se, nella sentenza finale dei giudici, Gore avesse ottenuto la presidenza, questa decisione avrebbe avuto esattamente la stessa connotazione - quella di una decisione più politica che giudiziaria - di quella che ha favorito Bush. Questa elezione non è stata più "sporca" ci precedenti elezioni negli Stati Uniti. Semplicemente, è stata molto più combattuta e il vicepresidente Gore, che aveva vinto il voto popolare per più di 300.000 suffragi, sentendo l'aroma della vittoria così vicino, si è deciso a compiere l' audace passo del mettere in discussione il risultato ufficiale in Florida. Era una decisione perfettamente legittima, ma politicamente rischiosa, perché relegava in secondo piano quella legge non scritta della cultura democratica secondo la quale le regole del gioco sono più importanti del risultato del gioco stesso. Questo fu il parere, ad esempio, di Nixon quando affrontò Kennedy, e di Ford quando affrontò Carter, contese nelle quali il risultato finale, molto di misura in alcuni stati, avrebbe potuto permettere una vertenza e l'esigenza di nuovi conteggi. Alcuni consiglieri raccomandarono sia a Nixon che a Ford di farlo, ma entrambi si rifiutarono, spiegando che questo avrebbe gettato un'ombra forse irreparabile sul sistema elettorale statunitense. Fecero bene ad agire così? Io penso di sì, e che per questo motivo, probabilmente, a differenza di quanto avvenne con Nixon, che dopo aver perso quelle elezioni continuò a essere presente nella vita politica, Gore non sarà più candidato dal suo partito nel 2005. Ha scommesso e ha perso e, invece di vincere, ha screditato un sistema che fino a quel momento godeva della fiducia generale. Conviene ricordare che la discussione sulle elezioni in Florida non ha mai implicato una concreta accusa di brogli, ovvero di una deliberata manipolazione del voto per deviare la volontà degli elettori da parte di funzionari o impiegati incaricati di vegliare sul suffragio. Si è sempre basata su presunti errori che possiamo giustamente definire "neutrali", determinati dal modo in cui gli elettori hanno usato gli strumenti per votare - ad esempio, senza premere abbastanza in modo da perforare la scheda elettorale - o da una confusione nel fare un segno sulla scheda in cui i candidati, invece di apparire in ordine verticale, erano disposti in ordine orizzontale (schede chiamate "a farfalla" e che erano state approvate, prima delle elezioni, da democratici e repubblicani). E per ciò che riguarda il voto per posta, si è discusso sull'interpretazione che ogni contea dello stato ha dato ai requisiti indispensabili - data di arrivo nel seggio elettorale, o indirizzo del mittente all'estero, ad esempio - perché quel voto potesse essere considerato valido. Queste imperfezioni dovranno essere corrette in futuro, non vi è dubbio, ma sarebbe ingenuo pensare che, in questo modo, con alcune riforme, si eliminerà qualsiasi margine di errore nelle future elezioni. Questa è un'utopia e la democrazia, invece, è la negazione dell'utopia, è il riconoscere che la perfezione non è di questo mondo, almeno nel sociale e nel collettivo (può esserlo solo a livello individuale), e che, pertanto, le istituzioni e le leggi per il governo della società devono essere realistiche e ammettere la propria natura imperfetta, anche se, si intende, infinitamente perfettibile. Benché non vi abbia mai vissuto per molto tempo di seguito - il massimo è stato un anno - ho trascorso vari periodi negli Stati Uniti, in diversi stati, e mi ha sempre colpito il modo in cui il cittadino comune partecipa alla vita della comunità. E' vero che, in occasione delle elezioni generali, l'astensionismo è di solito cospicuo, ma questa indifferenza non ha analogia - anzi, ne è agli antipodi - con quanto avviene a livello locale (quartiere, distretto, istituzione), dove il cittadino è sempre coinvolto, e fa campagne pro o contro gli amministratori, i regolamenti o le disposizioni municipali e partecipa alle elezioni dei giudici e alla gestione delle scuole. L'immensa maggioranza delle attività civiche e politiche (e di quelle religiose, ovviamente) si basa sul volontariato (compresi musei, parchi, ospedali, vita culturale), un'istituzione che incanala la partecipazione della cittadinanza in tutte le istanze dello Stato. Alcuni anni fa, scrissi un articolo in cui sostenevo la tesi che il cemento più solido della democrazia nel Regno Unito sono le vecchiette, quelle signore con dei cappellini pieni di fiori e di uccellini (alcune delle quali molto anziane), che scrivono lettere ai giornali, ai ministri e ai deputati, protestando o elogiando quello che avviene, e che vanno a manifestare con i loro cartelli davanti alle ambasciate o alla residenza del Primo ministro, e che portano sulle proprie spalle il peso delle campagne elettorali, senza percepire un centesimo. La società statunitense pratica, nella sua base sociale, queste buone abitudini e, per questo, anche se molte cose vanno male al suo interno e sono criticabili, dalla pena di morte all'influenza del denaro nelle elezioni, è una società così dinamica, con una formidabile capacità di rinnovamento e di modernizzazione che l' hanno fatta distanziare dalle altre democrazie occidentali. E' certo che niente di tutto ciò cambierà con la presidenza di Bush, un presidente che, certamente, dopo quanto è avvenuto, sale al potere con una zavorra che i suoi predecessori non hanno avuto e che, per questo stesso motivo, sarà sottoposto a una vigilanza e a un controllo molto più grandi. Anche se il suo programma, per quanto riguarda l'impiego degli astronomici utili fiscali, era diverso da quello di Gore (Bush proponeva di ridurre drasticamente le imposte, Gore di investirli per rendere più solida la politica sociale), è ovvio che, essenzialmente, l'orientamento generale della politica continuerà ad essere quello di Clinton, soprattutto in economia, perché sarebbe assurdo cambiare una rotta che ha dato finora dei risultati così vincenti alla società americana. Manterrà il presidente Bush la sua promessa di aprire le porte del NAFTA, l'accordo per il libero commercio che attualmente unisce Messico, Canada e Stati Uniti, a tutta l'America Latina? Lo aveva proposto nel corso della sua campagna e lo ha riaffermato recentemente, durante la visita di Vicente Fox, il nuovo presidente messicano. Speriamo che questa prospettiva si realizzi e che molti paesi latinoamericani, a cominciare dal Cile (che è quello che possiede l'economia più aperta e adatta per entrare a far parte del NAFTA) possano partecipare a questa alleanza. Non solo perché aprirebbe le porte del mercato degli Stati Uniti ai loro prodotti di esportazione, ma perché uno dei requisiti essenziali di quell'accordo è la preservazione di un sistema di legalità e di libertà, qualcosa che, come sappiamo, in America Latina ha sempre avuto un'esistenza breve e insufficiente.
(traduzione di Luis Enrique Moriones)
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