17 Settembre 2003
INDAGINE SULLA DOMANDA CHE NON C’E’ E SULLE CURE TENTATE DAL GOVERNO Lo spot televisivo si arrende davanti alla fiducia svanita Un anno fa Berlusconi lanciava la campagna per i consumi Il bilancio degli esperti: l’esperimento non poteva funzionare
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ROMA IL sacchetto. Ecco, il problema sta tutto lì. In quel sacchetto che in un ridente spot televisivo se ne gira al braccio dell’acquirente, che viene così investito da una raffica di sconosciuti: «Grazie!». Gira il sacchetto, girano i consumi, gira l’economia. E invece no. «Il sacchetto all’inizio era di quelli rigidi da boutique. Adesso, l’abbiamo dovuto sostituire con uno flaccido, da supermercato tutt’al più», ammette Felice Lioy dell’associazione Utenti di pubblicità. Era il 23 settembre del 2002, esattamente un anno fa. Berlusconi lascia il set della foto di gruppo di capi di Stato a Copenaghen, guarda dritto dentro la telecamera e fa: «Italiani! Non risparmiate: spendete!». Il sacchetto cominciò subito a girare. Solo in tivvù, naturalmente. Un anno dopo, flaccido o sostenuto, da shopping affluente o da beni di prima necessità, il sacchetto è addirittura sceso in sciopero. Per carità, non è che son tornati i Bo.Bi, i famigerati comitati Boicottiamo Berlusconi, che come ha raccontato il medesimo allo Spectator (tra altre, molto più rilevanti cose) «mi costrinsero a vendere la Standa». No, i Bo.Bi al momento navigano su Internet. Non sono loro ad aver mandato a casa il sacchetto. E nemmeno le associazioni di consumatori che hanno indetto ieri lo sciopero della spesa. «E’ stato lo stesso Berlusconi, il cui paradigma, ascesa e caduta, sta proprio tutto lì, in quel sacchetto», dice uno che su Berlusconi la sa lunga, uno che teneva pure il pigiama ad Arcore come Carlo Freccero. «Perché lo sciopero dei consumi è oggi simbolicamente la più forte metafora del declino berlusconiano». Più della Cgil che invade le piazze contro le pensioni, più delle sortite genere -diciamo- Erasmo da Rotterdam a briglia sciolta. Perché Berlusconi l’immaginario degli italiani l’ha invaso così, da uomo ricco, sciorinando magnificenze e private prodigalità, raccontandosi come quello che ha fatto anzitutto fortuna. Come quello che tutt’ora, dicono, agli amici di tanto in tanto ricorda quanto vale. Aggiornato all’ultimo euro. Narra la leggenda che la fortuna fantamiliardaria del più ricco italiano divenuto poi anche presidente del Consiglio sia stata tutta dentro un’idea semplicemente geniale: una piccola struttura pubblicitaria (Publitalia), legata a una piccola televisione locale (Telealto Milanese), di un allora piccolo impero (la Fininvest) mandava in giro per le fabbrichette lombarde i suoi venditori a dire: fate pochi biscotti? e quanti ne fareste se vi fosse possibile accedere alla pubblicità in tivvù? Ecco, se comprate la nostra pubblicità, poi ci pagherete quando sarete cresciuti. Anche con un cambio-merci. Insomma, Publitalia che cresceva assieme alle aziende. Su scala, è cresciuta la Fininvest. Ed è cresciuto il paese. Verissimo, racconta Freccero: «Ma il tutto non aveva nulla di artigianale. L’Auditel non c’era ancora, ma c’era già qualcosa che è ancora oggi ben più importante: le certificazioni Nielsen sull’efficacia di quella pubblicità nella vendita di quel determinato prodotto». Berlusconi dunque si identifica con il consumo fin dentro il codice genetico. Naturalmente, c’è chi non è d’accordo a vedere la nozione di consumismo come il paradigma del’intera parabola berlusconiana. «Lo sciopero è solo un fatto mediatico e metafisico, pure fallito» alza le spalle l’economista forzista Renato Brunetta. «Nessuno consuma o non consuma perché qualcun’altro gli dice di farlo, e quando Berlusconi lanciò quel messaggio l’anno scorso era consapevole di star tentando la via dell’aspettativa che si invera». Sarà. «A me parve piuttosto come Maria Antonietta che al popolo che le stava montando la Rivoluzione sotto casa voleva gettare una brioche dalla finestra» dice dalla sua cattedra milanese di sociologia dei consumi Gianpaolo Fabris. Intendendo: è poco credibile l’invito a spendere rivolto da uno che è il più ricco d’Italia. «Specie se destinatario del messaggio è un popolo di consumatori incazzati, che hanno sviluppato una straordinaria sensibilità al prezzo, che verificano tutti i giorni come per esempio nella ristorazione il valore dell’euro sia di fatto a mille lire, mentre l’Istat è dal Ventennio che propina balle filogovernative». Il dato macroeconomico, che dovrebbe essere rassicurante, è infatti quel 2,8 per cento di inflazione rilevato e garantito per quest’anno dall’Istat. Tutti difendono quell’istituzione, ma è un fatto che, quest’anno, il governatore della Banca d’Italia abbia introdotto per la prima volta nella sua Relazione il concetto di «inflazione percepita». In Europa, sarebbe al 4,5 per cento, in Italia del 10: se parlate con un tassista, sale subito al 50. E però, di fronte a una così alta «percezione» dell’aumento dei prezzi, c’è la fila di italiani (surplus di domanda, si chiama) per comprare Bot che rendono solo l’un per cento. E allora? Non bisogna aver letto l’ultimo articolo di Robert Solow, è evidente che c’è una caduta di fiducia. Generale. Internazionale. Nazionale. Si può chiamare anche stagnazione. Non tutta colpa di Berlusconi, per carità. Però. «Però noi abbiamo al governo uno specialista della pubblicità, uno che sa far crescere le aziende, a cominciare dalla sua, è verissimo» dice l’ex ministro diessino dell’Industria Pierluigi Bersani. «Ma sa cosa le dico? Non è che Berlusconi non sa governare perché non si rende conto che la ricetta per far ripartire i consumi e dunque anche l’economia è una sola, un po’ più di fiducia, un po’ più di reddito disponibile. No, Berlusconi non è un cattivo governante: è proprio un cattivo pubblicitario. Perché è capace di cavalcare i consumi, ma non di farli crescere». Un’esagerazione, forse, visto che poi i consumi non crescono neanche in quei paesi che non hanno il mago della pubblicità a Palazzo Chigi.
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