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La società penale 24 marzo 2002
La morte violenta di chi crede nel riformismo è un fenomeno che si ripete ormai con tale frequenza, in Italia, che conviene rivedere tutte le parole che usiamo, tutti i gesti che compiamo o che omettiamo di compiere, tutti gli slogan delle manifestazioni, e sforzarci di sottoporli in blocco - parole, gesti, slogan - al tribunale della ragione critica. È probabilmente l’unica cosa che ci resta da fare, in un paese dove i criminali sono di rado rintracciati, consegnati alla giustizia. Non viene meno la speranza in uno spirito delle leggi forte, che faccia luce sul crimine e torni a essere centro della cosa pubblica, ma nell’attesa conviene ricorrere a questo tribunale della coscienza, con l'aiuto del quale saremo forse capaci di capire meglio, e di prevenire, eventi come quello culminato nell'assassinio di Marco Biagi. Potremo anche capire il dolore, taciturno ma esigente, delle persone che gli erano più vicine. È da queste ultime che viene, a nostro parere, l'interpretazione meno imprecisa di quanto è accaduto martedì a Bologna. È da chi ha detto, con l’evidenza del parlare laconico: «Biagi è stato sacrificato da chi ha sparato, da chi non l’ha protetto, e da chi ha creato il clima». Il che è come dire (e non è solo il governo ad affermarlo): non tutti sono colpevoli del sangue versato, ma tutti sono responsabili di un omicidio politico che d’un tratto è apparso pensabile, facile, infine eseguibile, da parte di un piccolo collettivo terrorista.
Si può tacere o sorvolare su queste responsabilità più vaste, perché così comandano la ragioni di Stato, gli equilibri della politica, la difesa delle istituzioni. Ma nel tribunale della coscienza questi pudori non hanno luogo di esistere. Nel tribunale della coscienza c’è la colpa di coloro che hanno teso l’agguato ma c’è anche la responsabilità di chi ha omesso i soccorsi preventivi, di chi non ha visto montare i pericoli, di chi ha talmente stravolto l’agire politico da permettere che accanto ai partiti classici si ergessero le Brigate rosse, quali cogestori della res publica. Precisamente questo è tipico dell’Italia contemporanea: le persone che tentano di riparare quel che è storto senza subito gettarlo in un grande incendio castigatore, le persone che hanno fede nel progredire riformista, le persone veramente liberali, sembrano condannate a una profonda solitudine. Non appartengono a chiese, non ne condividono i conformismi, e la loro sorte è di rimanere isolati, esposti di volta in volta alla dimenticanza, all’indifferenza, o al disprezzo. La loro vocazione solitaria e laica è pagata, a intervalli regolari, con la vita.
Da questa constatazione si può partire, nel colloquio che ognuno avrà con se stesso: da questo destino italiano delle menti solitarie. Dal destino di chi non conosce i vantaggi e le gratificazioni del conformismo, delle manifestazioni-comunioni protestatarie, non essendo iscritto a chiese o religioni politiche. Il vero peccato è aver permesso con le parole e gli atti che Biagi precipitasse in questa solitudine che è divenuta letto di morte.
Sono colpevoli dunque gli assassini ma sono responsabili anche altri, che non hanno nulla a vedere con le Brigate rosse ma che hanno finito col facilitare l'iniziativa terrorista. Sono innanzitutto responsabili coloro che non hanno protetto un grande riformista, pur conoscendo i pericoli che il riformismo corre cronicamente in Italia. È compito dello Stato di diritto e della sua polizia di proteggere la persona esposta, di impedire che sul debole si abbatta la morte violenta, e questo compito non è stato assolto. Nonostante le proteste di Biagi, nonostante i timori dei suoi cari e le messe in guardia degli stessi servizi segreti, c’è chi ai vertici dello Stato ha omesso di assicurare le scorte necessarie, e di circondare il minacciato con un reticolato di legge e di ordine. Il ministro dell’Interno Scajola non ha torto, quando dice che «il terrorismo non si risolve con le scorte». Ma suo dovere non è di concepire strategie di lungo periodo bensì di agire qui, subito, per scongiurare il male peggiore che consiste non nella ricorrenza del morbo ma nell’omicidio di un uomo libero. Di questa omissione il governo si è reso responsabile, screditando l’intero apparato dello Stato. Quest’ultimo è apparso e appare debole, o peggio assente. Incapace di assolvere le proprie funzioni e di fermare l'assassinio politico. I brigatisti si prefiggono l’obiettivo di disarticolare lo Stato, ma sono troppo vili per dire come stanno effettivamente le cose. In realtà lo Stato è già disarticolato, e proprio per questo essi sentono di poter agire con facilità. Quel che si propongono non è completamente realizzato, ma in parte esiste già. Il governo ha dimostrato di avere un rapporto difficile, se non sregolato, con la legalità e lo Stato. È la sua massima debolezza, e i brigatisti ne traggono vantaggio. La vulnerabilità dello Stato democratico, lo dicono a chiare lettere nel loro testo di rivendicazione, è il punto di forza del terrorismo a Manhattan come a Roma. Ma sono responsabili anche coloro che hanno creato un clima, è stato detto dai familiari di Biagi. Sono responsabili sebbene non colpevoli coloro che hanno trasformato la questione di cui si occupava Biagi - la metamorfosi del lavoro nelle società di oggi, le diverse tutele che dovranno essere pensate per i nuovi lavori, gli egualitarismi che producono disuguaglianze crescenti tra regioni e generazioni - in una sorta di distorta guerra di trincea contro un governo. Inutile nascondersi dietro la ragione di Stato o la prudenza: se un linguaggio marxista è ancora possibile in Italia, se ancora si uccide in nome di Lenin e della guerra di classe, è perché il comunismo ha tuttora uno spazio legittimato nella discussione politica. Perché una parte della sinistra e del sindacato non ha fatto i conti con il comunismo come lo hanno fatto altri paesi europei. Perché c’è ancora chi mette sullo stesso piano la violenza terrorista, l’asprezza dei licenziamenti, e la riforma dello Statuto dei lavoratori. Perché collaborare con gli imprenditori è considerato ancora adesso un tradimento, una scorrettezza morale. Queste ambiguità erano presenti accanto all’alto senso civile, nell’ingente manifestazione che ieri a Roma ha consacrato al tempo stesso la Cgil, la figura di Cofferati, e la nascita di un’ampia resistenza popolare al terrorismo.
Il peccato d’omissione è dunque reperibile anche a sinistra, in chi non ha messo da parte le parole e le pratiche dello scontro di classe. È reperibile in tutti coloro che per anni hanno dimostrato di esser cedevoli sui principi dello Stato di diritto, della corruzione, della legalità, dell'ordine e della legge, per meglio sfruttare la vulnerabilità di Berlusconi, e dello Stato stesso che egli avrebbe rappresentato il giorno in cui avesse vinto alle urne. Qui è il motivo per cui la guerra di trincea appare distorta. Cedevole su principi che dovrebbero essere irrinunciabili, gran parte dell’opposizione è invece inflessibile sull’unico punto che dovrebbe comportare autocritica, disponibilità al dialogo: sulle questioni che i governi di sinistra hanno lasciato irrisolte e che il centro-destra si trova a dover affrontare con decisione riformatrice, come l’economia e la trasformazione del lavoro.
Quel che più angustiava Biagi, nel Libro Bianco scritto per il governo e nei testi scritti nel corso degli anni, era l’amplificarsi dell’abitudine italiana all’illegalità, al sommerso, allo sfruttamento fuori da ogni regola dei giovani precari e dei lavoratori senza posto fisso: le vere vittime di uno Statuto dei lavoratori che la Cgil si rifiuta di estendere, riscrivendolo. Chi lo ha accusato di tradimento non ha dato solo prova di spirito conservatore. Di fatto ha manifestato il desiderio, intenso anche se nascosto, di accettare il radicarsi di questa cultura dell’illegalità. Cultura dentro cui i nuovi brigatisti nuotano - sottovalutati dal governo come dallo Stato - simili a pesci nell’acqua.
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