La rivoluzione delle donne
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Nelle Piazze Della Protesta, In Prima Linea Migliaia Di Ragazze Alla Ricerca Di Un’inedita Libertà
Osserviamo gli umori delle piazze del Cairo con la preoccupazione di coniugare la “democrazia” invocata da milioni di senza diritti, alla “stabilità” che Mubarak ha garantito alle strategie di Stati Uniti ed Europa: 30 anni di buone maniere, 30 anni di polizie. Gli analisti sono così occupati ad inseguire le trame dei Fratelli musulmani da non guardare la folla che ogni giorno agita le nostre tv. E non si accorgono di una novità straordinaria: tante donne mai viste nella storia del mondo arabo. Ragazze che lanciano pietre contro gli scudi di chi prova a farle tacere. Ragazze che scaldano l’entusiasmo sui piedistalli dei monumenti. Ragazze velate e ragazze dai capelli sciolti con la sfrontatezza della Parigi ’68. Baciano militari quasi fossero angeli custodi o si mettono in posa davanti agli elmetti con la dignità di una sfida pericolosissima fino a una settimana fa. L’Islam delle donne ombra diventa protagonista nella capitale politica e culturale del mondo arabo. Se la contestazione di Parigi ha acceso le nuove generazioni d’Europa (a Milano arriva nel ’69, un anno dopo), i colori del Cairo – ragazze in piazza con madri e figli – annunciano la liberazione dal ghetto dell’altra metà del cielo schiacciata da padri, fratelli, mariti, politici, dittatori. All’improvviso, eccole lì. Sta per cambiare qualcosa o è solo l’illusione che i giochi dei notabili si preparano a imprigionare appena il gran conduttore fa le valigie?
DA SEMPRE LE DONNE dell’Islam immaginano di essere impegnate nella difesa di quei diritti umani che la politica maschile nasconde e reprime. Per imporsi hanno provato a rischiare la vita, ma dopo la sfida e il sacrificio le sopravvissute si sono ripiegate nella subalternità. Racconti di tanti anni fa. Leila Kalhed entra nella mitologia dei rotocalchi col velo sulla bocca e il mitra in mano. Era cresciuta ad Haifa, famiglia benestante, giardini di aranci . Poi l’esilio e la rabbia raccolta dal Fronte Popolare palestinese di Georges Habbash (rivale di Arafat) medico cristiano ortodosso. Perché il primo terrorismo arabo è cristiano. Leila prova a dirottare un aereo della Twa. Ma la sicurezza fa scattare l’allarme che blocca la cabina. Catturata e liberata tre giorni dopo, scambio ostaggi e prigionieri per un altro volo dirottato nel deserto giordano. Era il 1970. L’ho incontrata nel quartiere Jama Al Arabia della Beirut dove i palestinesi imperversavano. Magra, gentile: una specie di segretaria nell’anticamera di Habbash, signore supremo. Le avevano assegnato – raccontava malinconica – il posto che “meritava”.
NESSUN POLIZIOTTO fruga le sottane delle belle ragazze, nel ‘72 a Monaco, quando le fanciulle arabe preparavano l’assalto alle Olimpiadi. Nessun familiare sospettava della figlia kamikaze, orribili attentati nella Gerusalemme della paura. “Quando la vita non ha più senso e sai di non avere speranza, tutto è possibile”, racconta Rashida Asheda, ancora traumatizzata in Kuwait per la strage della bomba che le avevano ordinato di confondere fra i barattoli di un market di Gerusalemme. Insomma, donne usate per un terrorismo non solo atroce, soprattutto insensato. Usate e messe da parte. Ecco la scommessa che le immagini dal Cairo propongono al nostro pessimismo. Migliaia in fila contro Mubarak: verranno rinchiuse come comparse appena non servono dopo la caduta del rais, o contribuiranno a contenere i dogmi dell’estremismo di una parte dei Fratelli musulmani, così diversi dalla tolleranza che accompagna milioni di giovani del mondo arabo? In piazza, con fiori e bandiere, provano a cambiare il mondo. Se i nostri interessi alla “stabilità” trovano conveniente consentirlo.