Intervista a Panzeri: un piano inutile, non aiuta i deboli

Cronaca di Milano
IL SEGRETARIO DELLA CGIL
Panzeri: un piano inutile, non aiuta i deboli
«Non so, ho come l’impressione che se la raccontino fra loro. Forse perché non sono dei campioni d’autocritica, come si dice. O per convincersi di non aver fatto un buco nell’acqua». Antonio Panzeri, segretario della Camera del Lavoro, considera il «rilancio» del patto per il lavoro e ridacchia: «Questa faccenda sta diventando un po’ stucchevole, l’opinione pubblica sarà anche un po’ stanca...». Perché «stucchevole»? «Guardiamo un paio di dati, che non sono inventati dalla Cgil. Per cominciare: nel 2000, tra Milano e provincia, abbiamo avuto 24 mila immigrati avviati al lavoro, circa il 15-20 per cento del totale». E allora? «E allora è tutta gente che ha trovato un posto grazie alle norme e alle regole che esistono già, senza bisogno di patti particolari e gentili concessioni di flessibilità aggiunta alle imprese». L’altro dato? «I settemila e passa "imprenditori" extracomunitari censiti dalla Camera di commercio nell’ultimo anno. Proviamo a fare un raffronto: da una parte ventiquattromila immigrati occupati e settemila nuovi "imprenditori", dall’altra un "patto" che, secondo i più ottimisti, avrebbe procurato 224 posti. Fa abbastanza ridere». Ma tutto questo che significa, secondo lei? «Che il mercato nel milanese funziona benissimo, è in grado di assorbire lavoro senza bisogno di patti e pattini che aggiungono flessibilità. Il piano è inutile, lo ripetiamo da due anni». Ma se «fa ridere», cosa vi preoccupa? «Quello che abbiamo contestato fin dall’inizio è la cultura, diciamo così, del "meglio qualcosa che niente". È un principio che va debellato dal sistema delle relazioni sindacali. Perché è un pozzo senza fondo: cominci a discriminare e va sempre peggio». Però si dice: per i soggetti più deboli è assai difficile, trovare un lavoro... «Vero. E la dimostrazione che i patto non risolve il problema sta nel fatto che in due anni non hanno combinato nulla. Se si facesse uno sforzo utilizzando le norme che ci sono, se ci fosse maggiore convinzione nelle politiche del lavoro, avremmo risultati migliori. A cominciare dagli ultraquarantenni. No, la verità è un’altra...». Quale? «Loro avevano in testa questo strumentino, un modellino da applicare a tutto il Paese: compiere uno strappo inutile sulla flessibilità e dividere il sindacato». E adesso? «Quell’accordo ha escluso l’organizzazione sindacale più grande. Ora si ripropone l’idea. Facciano pure. Ma i problemi di Milano, le questioni sociali, produttive, di sviluppo, non possono essere lasciate allo spazio angusto del patto per il lavoro. La mia impressione è che Albertini abbia riservato al sindacato solo questo spazio, non ha senso...». Invece? «Si deve fare un salto di qualità. Apriamo un confronto ad ampio raggio sulla città. La Cgil ha dichiarato da tempo la sua disponibilità. Ma non secondo quella logica». La logica del patto? «Già. Che non si cominci a dire che tutto rientra nel patto per il lavoro. È ingiusto e penalizza Milano il fatto che tutto si riduca a quella cosetta lì».
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G. G. V.
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