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La Confindustria si sbaglia ROMA Ospite in redazione, il presidente del Consiglio Giuliano Amato, ieri mattina ha risposto per quasi tre ore alle domande dell’Unità. Un «forum» a 360 gradi - dalla globalizzazione, alla politica italiana, alle prospettive della sinistra - introdotto dal direttore Furio Colombo e dal condirettore, Antonio Padellaro. Il resoconto completo dell’intervista a più voci sarà pubblicato nei prossimi giorni. Anticipiamo le risposte di Amato ad alcune domande maggiormente legate all’attualità più contingente. Presidente Amato, che ne pensa dell’assemblea generale della Confindustria? Gli industriali, con la relazione del loro presidente, D’Amato, hanno chiesto al governo scelte “impopolari”. E Berlusconi ha già risposto annunciando di essere pronto. Lo scrittore Cluadio Magris ha scritto di non capire perché «a quella o quall’altra misura» occorra aggiungere da parte della destra «la faccia feroce, la minaccia e l’intimidazione». Ha colpito anche lei quell’atteggiamento così perentorio di coincidenza, almeno apparente, tra Confindustria e la nuova maggioranza di governo? «Non condivido questa valutazione della relazione svolta da D’Amato. Che ha detto tre cose che contano, anche se - come era prevedibile - non ha certo sostenuto le posizioni del Sindacato... La prima: in diversi passaggi ha sottolineato la non coincidenza tra parti sociali e parti politiche. Probabilmente, anche se non esplicitamente, aveva in mente un’accusa di strumentalità politica rivolta alla Cgil. Ma ha fatto un’affermazione di principio che - in quanto tale - vale anche per lui: le parti sociali non sono schierate a priori con nessuna parte politica. Secondo: ha affermato che, se il governo farà le cose da lui proposte, lui lo sosterrà, ma che non farà sconti a nessuno. Il che in fondo vuol dire: non illudetevi, non aspettatevi che un governo di centrodestra abbia prenotato uno sconto da parte della Confindustria. Niente, dunque, sconti aprioristici. Terzo: D’Amato, è vero, ha invitato il governo futuro a scelte impopolari. Richiesta che viene rivolta proprio a un governo che nascerà, invece, sulla base di una maggioranza elettorale costruita attraverso promesse popolarissime, strapopolari. Il fatto che il futuro premier manifesti una tendenziale adesione a chiunque gli si rivolga ha portato Berlusconi anche in questa occasione ad aderire. Ma questo non deve nascondere un dato di fondo: la maggioranza del centrodestra non si è costruita su una linea thatcheriana, ma sulla base di promesse populiste. E questo fa un’enorme differenza. Crea una dinamica che è tutta da vedere, tutta da valutare».
Il via libera ai licenziamenti che sostanzialemente è stato riproposto da D’Amato non accentua le ragioni di inquietudine e di difficoltà all’interno del movimento sindacale? «Si tratta della richiesta di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per il quale Confindustria chiede una modifica: passare dal “reintegro” in caso di licenziamento a una indennità. Le parole di D’Amato mi confermano nella tesi che gli enunciai privatamente e pubblicamente, riguardo alla scarsa lungimiranza della Confindustria, che volle agganciare la questione dei licenziamenti a quella del Tfr, che non c’entrava per niente. Tale atteggiamento ha avuto un solo grave risultato: ha impedito all’Italia di avere un sistema previdenziale più robusto e un sistema finanziario migliore attraverso il volano dei fondi pensione. Su questo tema non funziona lo stereotipo con cui si cerca sempre di dividere tra loro i sindacati: “La Cgil è sempre aggressiva, gli altri sindacati sono più disponibili”. L’altra sera a Porta a Porta il neo-segretario della Cisl, Pezzotta, ha ripetuto, invece, a D’Amato quanto Sergio D’Antoni gli disse nettamente a casa mia in una sera dell’estate scorsa: “Se tieni sul tavolo questa richiesta di modifica dell’articolo 18 non si apre nessun negoziato”».
Veniamo all’attualità politica più stringente: dopo il 13 maggio si gioca il secondo tempo della partita con i ballottaggi nelle elezioni amministrative. Si viene, dunque, da una sconfitta le cui ragioni sonmo ancora sottoposte ad analisi. Roma, Torino e Napoli possono diventare i punti di partenza per un’inversione di tendenza? «Sono tre città cruciali, dove c’è un’esperienza positiva di governo del centrosinistra, e dove si può dimostrare che la forza dell’Ulivo è quella di una coalizione competitiva e potenzialmente vincente, proprio perché il congegno dei ballottaggi mette in gioco la capacità di aggregazione, che in qualche modo s’è dimostrata, al contrario, insufficiente nelle elezioni politiche. Questo, tra l’altro, accentua la mia nostalgia per un sistema elettorale che non abbiamo adottato, quello a doppio turno. Infatti, esso avrebbe probabilmente consentito ciò che non è stato possibile il 13 maggio, ma che il meccanismo dei ballottaggi può tornare a far riemergere. È una lezione che bisogna tener presente: il sistema maggioritario a un turno funziona in modo appropriato quando ha dietro un sistema bipartitico. Quando invece il sistema produce terze e quarte forze, allora la partita decisiva bisognerebbe poterla giocare con un secondo turno».
Un sistema elettorale diverso, insomma, che cosa avrebbe potuto consentire? «Premetto che io ho intenzione di lavorare in quello che rimane della mia vita perché noi possiamo costruire una sinistra che metabolizzi tutto il proprio elettorato potenziale.Ma non posso nascondermi un altro aspetto: per mille ragioni, sul teatro politico possono comparire schegge e frammenti, dissidenze che non sono in grado di assumere forma di partito o organizzarsi autonomamente. Ed è un paradosso che per effetto del sistema elettorale non si possano creare le condizioni per un loro recupero. Il sistema del doppio turno sicuramente lo consentirebbe».
Parliamo dell’ultimo atto del governo Amato: il decreto legge che sterilizza le azioni Montedison varato l’altro giorno dal Consiglio dei ministri: alcune critiche vi hanno visto un’impronta “statalista” e altri hanno detto di non comprenderne l’utilità. Ma tutti rilevano l’assenza di regole che ha consentito l’operazione... «La vicenda dell’Edf rivela una carenza europea, l’assenza di un quadro di regole: non è possibile che l’Europa imposti la liberalizzazione del settore e poi non sia in grado di regolare queste asimmetrie che possono travolgere i processi di liberalizzazione. A me è dispiaciuto dover adottare questo decreto: si tratta di una reazione a livello nazionale, che considero il surrogato di un’insufficienza europea. Il fatto è che non dev’essere assolutamente consentito che un operatore al cento per cento pubblico di un altro Stato e non quotato in Borsa entri in altri mercati, acquisendo un servizio pubblico, della cui efficienza poi non risponderà all’utente italiano, perché quella società risponde semmai all’elettore francese. Le regole, è vero, mancano. Il paradosso è che abbiamo dovuto difendere la mission europea della liberalizzazione con misure di livello nazionale, che non sono le più appropriate.
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