14/10/2002 ore: 11:08
Il tramonto del Lingotto-padrone troppo potere, poca concorrenza -3-
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LUNEDÌ, 14 OTTOBRE 2002 |
Pagina 13 - Economia |
Per anni impedito a ogni produttore di mettere radici in Italia |
Il protezionismo ha penalizzato il Paese e l´occupazione |
Il tramonto del Lingotto-padrone troppo potere, poca concorrenza |
Prodi:"Errore fatale fermare l´operazione Ford-Alfa Romeo" |
Il presidente della Commissione Ue ricorda: "Fecero di tutto per bloccare la vendita dell´Iri agli americani, e ci riuscirono. Con più mercato oggi starebbero meglio l´azienda e l´economia italiana" |
Difendere ad ogni costo le pretese di Torino è costato agli italiani 11mila miliardi di lire in 10 anni. Un "effetto serra" che ha reso il gruppo dirigente incapace di tenere il passo con la realtà internazionale |
FEDERICO RAMPINI |
TORINO - «Io volevo vendere l´Alfa Romeo alla Ford proprio per questo: per avere in Italia due grandi case automobilistiche, non una sola. Fecero di tutto per impedirmelo, e ci riuscirono. Invece se ci fosse stata più concorrenza interna oggi starebbero tutti meglio: di certo starebbe meglio l´economia italiana, ma anche la stessa Fiat». Romano Prodi oggi arriva a Torino e non può fare a meno di ricordare quello che accadde sedici anni fa, quando lui era il presidente dell´Iri che controllava l´Alfa. La battaglia spietata che la Fiat sferrò contro Prodi, fino a convincere il governo Craxi a bloccare la vendita alla Ford, è un passaggio-chiave per capire la crisi drammatica di questi giorni. Se l´Italia rischia di rimanere l´unico grande paese industrializzato senza più un produttore nazionale di automobili, è perché la Fiat ha sempre cercato di evitare la concorrenza, ha avuto tutti gli aiuti che voleva dai governi, e questo protezionismo alla fine le è stato fatale. La lezione di Prodi non è bastata. Anche di fronte a questa crisi Fiat spunta la voglia irresistibile di usare le ricette dello statalismo. Silvio Berlusconi cita (a sproposito) Renault e Volkswagen per legittimare un ingresso dello Stato nel capitale della Fiat Auto, cioè una nazionalizzazione parziale a spese del contribuente. Parla di una soluzione «di mercato», l´intervento pubblico sarebbe provvisorio: dicevano così anche i democristiani ai tempi della Gepi. Fausto Bertinotti applaude, molti sindacalisti sono favorevoli. Si giustificano così: l´azionista pubblico dovrebbe dettare le condizioni alla General Motors, quando comprerà la Fiat Auto, per impedire che vengano smantellate fabbriche e occupazione in Italia. In realtà è il vecchio partito trasversale dell´assistenzialismo pubblico che non è mai morto. Un tempo lo si sarebbe chiamato il «partito Fiat», quando l´azienda torinese era in grado di condizionare la politica italiana. Oggi i rapporti di forza sono cambiati. Quello che non è cambiato è il blocco di forze anti-europee, anti-occidentali, anti-mercato, che va dal presidente del Consiglio all´estrema sinistra. Quel blocco che per un secolo si è attivato quando la Fiat ha voluto aiuti, o ha preteso barriere contro le case straniere. Bruno Trentin conosce la storia di questa azienda come pochi: fu il leader carismatico dei metalmeccanici che da Mirafiori lanciarono «l´autunno caldo» del 1969 e la più lunga stagione di conflittualità operaia; è stato segretario generale della Cgil ed è una delle menti più raffinate della sinistra italiana. Trentin ricorda quante volte la Fiat usò del suo potere per impedire l´ingresso di produttori stranieri: «Ancora prima del caso che fu vissuto da Prodi all´Iri, negli anni Settanta la Innocenti stava per diventare giapponese. La Fiat riuscì a impedirlo. La Innocenti se la comprò lei, e poi cominciò a smantellarla. Esattamente quello che sarebbe successo dieci anni dopo con l´Alfa Romeo: un´azienda che in fatto di organizzazione del lavoro era molto più avanzata della Fiat, e una volta passata sotto il comando di Torino venne impoverita». Il protezionismo non lo ha inventato l´Italia. In altri paesi i governi hanno aiutato le loro case automobilistiche. Il liberista Reagan impose dei limiti alle importazioni giapponesi negli Stati Uniti. La Francia inventò la rottamazione. Tedeschi e inglesi diedero aiuti pubblici alle loro imprese. Ma in nessun altro paese un´azienda automobilistica è riuscita a fare quello che ha fatto la Fiat: diventare l´unico produttore locale - assorbendo via via tutti i concorrenti nazionali in crisi - e vietare di fatto a qualunque straniero di insediarsi in Italia a fabbricare auto. Nel caso più importante, quello vissuto da Prodi, nella primavera del 1986 l´allora presidente dell´Iri aveva già firmato una lettera d´intenti per vendere alla Ford l´Alfa Romeo in crisi. All´inizio Gianni Agnelli sembrò accettare la sfida della competizione in casa propria. Di fronte all´assemblea degli azionisti, il 3 giugno di quell´anno, l´Avvocato dichiarò: «E´ preferibile avere un concorrente come Ford, abituato alle leggi di mercato, piuttosto che avere a che fare con un´azienda la cui sopravvivenza è legata alla beneficenza dei fondi pubblici». Ma poi cambiò atteggiamento e da Torino partirono pressioni sul governo Craxi per bloccare gli americani. Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, ironizzò sulla campagna scatenata dalla Fiat, trovandola poco coerente con l´immagine cosmopolita e modernizzatrice di Agnelli: «Prima ci è stato detto che dovevamo aggrapparci alle Alpi per non sprofondare nel Mediterraneo; ora che ci si potrebbe ancorare, viene sventolato il vessillo nazionale». Le ironie non impedirono la vittoria della Fiat, e anche quella volta lo straniero rimase fuori. Proprio negli stessi anni gli Stati Uniti, la Francia, l´Inghilterra e la Spagna offrivano al contrario generosi incentivi perché le case straniere creassero fabbriche di auto (e posti di lavoro) sul loro territorio. Oggi Toyota, Honda, Bmw e Mercedes hanno fabbriche negli Stati Uniti. La Toyota ne ha una nel Nord della Francia. La Spagna, grazie a imprese tedesche francesi e americane sul suo territorio, produce più auto dell´Italia. Come dice Prodi, se la Ford si fosse comprata l´Alfa Romeo, oggi la crisi della Fiat non verrebbe vissuta dal paese come la fine dell´intera industria automobilistica nazionale. E Prodi ha ragione anche sull´altro punto: la concorrenza in casa avrebbe stimolato la stessa Fiat. Osserva il segretario dei Ds Piero Fassino: «Il neoamministratore delegato della Fiat Auto, Boschetti, ha ammesso: non sappiamo vendere i nostri prodotti. E´ una diagnosi drammatica, vuol dire che l´azienda è viziata da una cultura monopolistica, non sa cos´è il mercato». Uno dei più acuti studiosi del caso-Fiat è Luciano Gallino, esperto di organizzazione industriale e docente di sociologia all´Università di Torino. Lui definisce «effetto-serra» le protezioni politiche di cui la Fiat si è circondata fino all´ultimo. Gallino fa notare un parallelismo inquietante: mentre la Fiat sotto l´effetto-serra si attardava nella difesa illusoria del mercato interno, accumulava gravi insuccessi nelle campagne di acquisizioni all´estero. «Ancora dodici anni fa - dice Gallino - la Fiat aveva quasi le stesse dimensioni della Volkswagen. Da allora i tedeschi hanno infilato una serie impressionante di acquisizioni all´estero, comprandosi una decina di aziende: dalla Seat alla Skoda. Volkswagen è passata così da 2,5 a 5 milioni di auto prodotte all´anno. Renault si è comprata la Nissan. La Fiat ci ha provato con Volvo, ed è stata sconfitta. Gli stessi top manager della Fiat già dieci anni fa dicevano che non si poteva restare in gioco se non si producevano almeno tre milioni di vetture all´anno: i costi per la ricerca e il lancio di nuovi modelli impongono queste dimensioni di scala. Oggi probabilmente quella soglia minima di sopravvivenza è salita a quattro milioni. Tutti i concorrenti l´hanno superata. La Fiat non è mai salita sopra i due milioni e mezzo». L´effetto-serra dunque ha avuto quest´altro effetto: il management a furia di coltivare il suo orticello domestico ha perso contatto con la realtà internazionale, si è provincializzato. Un destino che non stava scritto nella storia: ancora negli anni Sessanta con l´avventura di Valletta in Russia (Togliattigrad) la Fiat aveva messo a segno dei colpi internazionali importanti. Ma l´effetto-serra che ha reso sempre più gracile l´azienda torinese, era anche la conseguenza di una scelta strategica precisa. Prodi la definisce con eleganza quando dice: «E´ stata l´idea di gestire il paese, quella che li ha rovinati». Forti del loro peso politico in patria, la Fiat e gli Agnelli hanno comprato il comprabile. «Nessun altro gruppo automobilistico - dice Gallino - ha attività così differenziate. A monte, le holding Ifil e Ifi della famiglia Agnelli hanno pezzi di banca, grande distribuzione, turismo. Dentro la stessa Fiat ci sono assicurazioni, energia, giornali. Né la General Motors né la Ford sono così diversificate. Il management della Gm e della Ford dall´amministratore delegato in giù pensa a una cosa sola: fare automobili, farle bene, e venderle. Non si può dire lo stesso del management Fiat». Il risultato è la débacle attuale. Perché la Fiat continuasse a fare automobili, gli italiani sono stati tassati di 11.000 miliardi solo negli ultimi dieci anni: questa è la somma degli aiuti pubblici all´azienda torinese. A che cosa siano servite le stampelle dell´assistenzialismo statale, è sotto gli occhi di tutti. «Intanto il paese investe pochissimo nella ricerca scientifica, nell´innovazione. Produce sempre meno brevetti e invenzioni industriali. Sono preoccupato, angosciato per il futuro dell´Italia nella competizione internazionale». Così conclude il presidente della Commissione europea, che sedici anni fa cercò di salvare l´industria automobilistica nazionale con una ricetta semplice: il mercato. (3 - segue) |