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I prigionieri di Cofferati - di Angelo Panebianco

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10 luglio 2002

L'amaro destino dei riformisti in Italia
I prigionieri di Cofferati

di Angelo Panebianco
      Tempi e modi ancora non si conoscono ma l’ascesa di Sergio Cofferati a capo della sinistra italiana appare difficilmente arrestabile. Come mostrano le deboli resistenze di Piero Fassino e di Massimo D’Alema, proponenti, in teoria, di una politica «riformista» assai diversa da quella (intransigente-massimalista) di Cofferati. Perché ciò accade? Per capirlo bisogna guardare alla storia passata della sinistra italiana. Anche questa vicenda conferma la veridicità del detto secondo cui chi non conosce il passato è condannato a ripeterlo. Cofferati vince perché, nei momenti difficili della vita della sinistra italiana, il massimalismo ha sempre la meglio sul riformismo, mostra più capacità di mobilitare i ceti popolari e gli intellettuali. E’ almeno dal 1912 che ciò accade. Nel 1912, al Congresso socialista di Reggio Emilia, i massimalisti presero definitivamente il potere a spese di quei riformisti che, sotto la guida di Filippo Turati, avevano dominato il partito, quasi ininterrottamente, dalla sua fondazione. Da allora, il riformismo non è mai più stato capace di conquistare i cuori e le menti della maggioranza del «popolo di sinistra». Il che spiega la diversa storia della sinistra italiana rispetto a quella delle altre sinistre europeo-occidentali. Spiega il fatto che l’Italia abbia avuto il più forte partito comunista d’Occidente. Spiega perché tutti i tentativi di rovesciare i rapporti di forza tra i riformisti (socialisti) e i comunisti, eredi del vecchio massimalismo, siano sempre falliti. Fallirono il primo centrosinistra e l’unificazione socialista degli anni Sessanta. Fallì, allo stesso modo, anni dopo, lo sforzo di Bettino Craxi.
      E’ fallito, per le stesse ragioni, anche l’ultimo tentativo, compiuto da D’Alema, di far definitivamente trionfare l’anima riformista. Contando sul suo controllo dell’apparato del partito e, in seguito, delle leve del governo, D’Alema provò, anche lui, a portare il grosso della sinistra nell’alveo del riformismo socialista. Ma proprio Cofferati, sapendo di avere dietro di sé il consenso della base, si mise di traverso.
      Cofferati vince perché in Italia, a differenza degli altri Paesi occidentali, arrivati al dunque, i Cofferati vincono sempre. E i Turati perdono. L’odio per D’Alema, così visibile in molta parte della sinistra italiana, non dipende tanto dai suoi errori (che pure ci sono stati) quanto dal fatto che egli osò tentare ciò che più ripugna alla cultura politica tuttora egemone nella sinistra: bandire il massimalismo.
      Le cose sono però, per Cofferati, complicate. Deve infatti fronteggiare una grave contraddizione. Da un lato, egli si è offerto, con successo, come leader-simbolo dell’eterno massimalismo della sinistra italiana. Dall’altro lato, combatte anche per difendere quel potere di veto nei confronti delle politiche governative che la Cgil si era conquistata negli ultimi decenni e che il governo Berlusconi oggi rifiuta di accettare. Dove sta la contraddizione? Nel fatto che se per conquistare i cuori del popolo di sinistra è necessario assumere pose massimaliste, l’amministrazione del potere di veto della Cgil ha sempre imposto ai suoi leader di rifuggire da quelle pose (e difatti anche Cofferati, prima della sua recente mutazione, era noto come un pragmatico riformista). Anche oggi, per salvare il salvabile, se non del potere di veto, quanto meno di una qualche capacità di contrattazione della Cgil, occorrerebbe una politica sindacale più moderata. Spetterà ai successori di Cofferati districarsi dalla contraddizione.
      Nel frattempo, è la comprensibile spia di un disagio la dichiarazione del leader
      in pectore della Cgil Guglielmo Epifani, secondo cui, se il governo escludesse la sua organizzazione dai tavoli delle trattative, ciò configurerebbe «violazione della Costituzione». Se si riferisce alla Carta costituzionale, Epifani sbaglia. Se invece si riferisce a quella costituzione di fatto, «materiale», che per tanto tempo ha assicurato un diritto di veto alla Cgil, ha perfettamente ragione.

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