13/9/2007 ore: 11:24

È ora che la Cgil capisca cosa vuol fare da grande

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    giovedì 13 settembre 2007

    Prima Pagina - Editoriale

    Sindacalia - Il prevedibile strappo della Fiom e una discussione sempre rinviata
      È ora che la Cgil capisca
      cosa vuol fare da grande

      di Michele Magno

      Lo strappo della Fiom era largamente prevedibile, ma non per questo è meno preoccupante. Non perché rompe l’isolamento di Rifondazione e mette benzina nel motore della Cosa rossa. Né perché è figlio di una vecchia cultura operaista. La ragione è un’altra. Il voto di Rinaldini e Cremaschi allude a un progetto politico ambizioso. Quello cioè di dare vita a un “sindacato dell’alternativa”, in grado di rappresentare la galassia del disagio sociale e di determinare nuovi equilibri di potere all’interno della maggioranza. Ora, il sindacato è un’organizzazione che non si limita mai all’azione di protesta, di denuncia, di propaganda, ma costruisce soluzioni, elabora proposte, crea processi reali di solidarietà. Fuori da questo orizzonte, il sindacato rischia di smarrire la sua ragion d’essere. Nella linea della Fiom, al contrario, sembra prevalere l’idea di una radicalizzazione, di uno scontro con il governo, secondo cui è possibile attuare solo una strategia di resistenza, di limitazione del danno. In altre parole, un sindacato politicizzato, ideologizzato, che antepone la purezza dei principi alla verifica della realtà, finisce per perdere la sua forza e lascia scoperta la sua pulsione di rappresentanza sociale. Coltivando l’illusione dell’autosufficienza, inoltre, mette in sordina il problema dell’unità sindacale.

      Sotto questo profilo, il rischio che il referendum sul protocollo divenga una specie di ordalia è forte. Come non è da sottovalutare il pericolo che si trasformi in una competizione distruttiva con Cisl e Uil. Ci sono numerosi e stringenti motivi, quindi, perché la Cgil avvii senza tentennamenti, vincendo ogni inerzia burocratica, un confronto alla luce del sole sulla sua condizione odierna. Un confronto che faccia davvero i conti con i retaggi di un’inossidabile cultura centralista e produttivista. Una cultura che non ha ancora liquidato la tesi della supposta corrispondenza tra centralismo statale e eguaglianza dei diritti di cittadinanza. E che ancora non riconosce pienamente il pari valore di tutti i lavori, stabili o saltuari, di servizio o di fabbrica. Una cultura restia ad assumere la lotta per l’efficienza amministrativa e per una più alta qualità del lavoro pubblico come asse della modernizzazione del paese. Una cultura, infine, che fatica a disfarsi di una concezione risarcitoria del welfare. L’accordo del 23 luglio scorso è sicuramente importante. Il fronte della contesa sul welfare, però, è rimasto quello della ripartizione delle risorse date. Invece il fronte principale è quello della ripresa dello sviluppo e delle riforme indispensabili a innescarlo. Questa è la fondamentale opzione che il sindacato dovrebbe saper indicare. Ma questa chiarezza fino ad oggi è mancata. Eppure essa è essenziale per ristabilire un rapporto di coerenza tra valori e programma, tra analisi e proposta.

      Su questo terreno molti nodi non sono stati sciolti. Molti approcci diversi convivono nella Cgil senza che siano stati messi seriamente in discussione. In questo senso, ai riformisti della confederazione di Corso d’Italia spetta una non piccola responsabilità: quella di contribuire all’avvio di un nuovo corso nel sindacato maggioritario. Sapendo, come ammoniva Machiavelli, che «non c’è niente di più difficile da condurre, né più dubbioso di successo, né più dannoso da gestire, dell’iniziare un nuovo ordine di cose».

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