Doppia verità su una riforma - di Pietro Ichino
6 giugno 2002
L’opposizione e il lavoro: cautele e imbarazzi
DOPPIA VERITA’ SU UNA RIFORMA di PIETRO ICHINO
Dall’atto della Camera dei Deputati n. 6835/00: «L’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è sostituito dal seguente: Art. 18. ... Il giudice, qualora accerti l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo... del licenziamento, ... può disporre la riassunzione del lavoratore o, in mancanza, il versamento di un’indennità...», il cui limite massimo viene fissato in 28 mensilità dell’ultima retribuzione. In altre parole, è quello che viene comunemente indicato come il «modello tedesco»: una riforma della materia moderata ma incisiva; e, con qualche modulazione, estensibile a tutti i 16 milioni di lavoratori italiani dipendenti. È questa la proposta con cui il governo si propone di uscire dall’improvvisazione e disorganicità delle sue prime proposte sull’articolo 18? No: quello sopra riprodotto è il testo dell’articolo 2 del disegno di legge 3 marzo 2000, di iniziativa di Tiziano Treu, già ministro del Lavoro nel governo Prodi; seguono le firme di altri 48 parlamentari, di vari gruppi dell’Ulivo, diessini compresi, tra i quali Michele Salvati, Giancarlo Lombardi, Ferdinando Targetti, Gaetano Veneto, Stefano Bastianoni, Augusto Fantozzi. Certo, sono passati due anni; e cambiare idea è del tutto legittimo. Risulta, però, che almeno il primo firmatario non l’abbia cambiata: è fresco di stampa un suo libro (Politiche del lavoro - Insegnamenti di un decennio , il Mulino) dove a pag. 387 quel disegno di legge è presentato come «riforma mancata» della XIII legislatura, e come indicazione di rotta per il futuro. Se dunque è così, e se anche Giuliano Amato è personalmente ben convinto della bontà di quella linea di politica del lavoro, perché ora nello «Statuto dei lavori» elaborato dagli stessi Amato e Treu si legge che del vecchio diritto del lavoro, per i 9 milioni di lavoratori a cui esso si applica, non deve cambiare una virgola? Che Cofferati non sia d’accordo, lo si sa fin dal suo epico scontro con D’Alema al congresso dei Ds del 1997; ma se tanti illustri esponenti del centrosinistra non erano d’accordo con Cofferati nel 2000, e se, come sembra, presi uno per uno, essi non hanno cambiato idea nel frattempo, perché ora gli vanno tutti dietro, come tanti soldatini «allineati e coperti»? E la Cisl e la Uil? Che cosa induce Pezzotta e Angeletti a pensare che le rispettive confederazioni usciranno meglio dall’ impasse restando sostanzialmente in mezzo al guado, cioè senza presentare al tavolo delle trattative una propria proposta organica di riforma? Dopo lo sciopero generale del 16 aprile ho posto questa domanda, nel corso di incontri pubblici e privati, a molte persone, anche assai eminenti, che nutrono idee simili a quelle di Treu o di Salvati. La risposta è sempre stata una sola: queste idee saranno praticabili quando saremo tornati al governo; non ora, con questa maggioranza, perché cedere su di un punto può significare spalancare la porta a uno smantellamento incontrollato del diritto del lavoro. A me sembra, però, che quella porta la si spalanchi di più lasciando che l’attuale maggioranza proceda unilateralmente ad approvare i suoi attuali disegni di legge, come peraltro è suo diritto fare. Chi vuole davvero mantenere un controllo efficace su quella porta deve negoziare con il governo i termini di una riforma; e su questa materia un’intesa sensata è più che possibile. Infine altre due domande agli «oppositori con riserva mentale»: pensate davvero di poter tornare più facilmente al governo con la parola d’ordine per cui «il vecchio diritto del lavoro non si tocca»? E se anche la cosa dovesse funzionare, che cosa direte ai vostri elettori il giorno dopo che sarete tornati al governo, per riprendere il discorso sull’indispensabile riforma del diritto e del mercato del lavoro? Potrete forse dire: «Finora abbiamo scherzato; da questo momento ricominciamo a fare sul serio»?
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