21/5/2003 ore: 9:59
Cultura&Informazione" Povero re...e povero anche il buffone - di B.Sebaste
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mercoledì 21 maggio 2003
filosofia
Povero re...e povero anche il buffoneScritto contro l’immoralità e il cinismo del potere, «L’elogio della follia» di Erasmo ammoniva a non indossare più d’una maschera nella commedia della vita
Beppe Sebaste
«Chi negherà che un re è ricco e potente? Eppure, se manca del
tutto dei beni dell’animo, se non è mai contento di nulla, è davvero il più povero di tutti. Se poi l’animo suo è una sentina di vizi,
è addirittura uno schiavo abbietto». Così Erasmo da Rotterdam, in un passo del suo Elogio della follia, 1511 (cito dalla versione di Eugenio
Garin). Ora, se c’è qualcosa di insopportabile nelle esternazioni del presidente del Consiglio, anche per chi volesse restarsene in disparte, è la sua invadenza di ogni campo, il suo ininterrotto indossare maschere
pur essendo lui il padrone di ogni cerimoniale.
Se nel Cinquecento la metafora del teatro era onnipresente, oggi c’è la televisione. Inutile dire che il presidente del Consiglio è il padrone di tutte le televisioni (di tutti i teatri?): «Se uno tentasse di strappare la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma,
mostrando nuda agli spettatori la loro faccia autentica, forse che costui
non rovinerebbe lo spettacolo meritando di esser pre so da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un forsennato? Di colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al posto di un giovane un vecchio; chi era un dio, a un tratto apparirebbe un uomo da nulla. Ma dissipare l’illusione significa togliere senso all’intero dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la
finzione, il trucco…». Così Erasmo.
Il presidente del Consiglio, nel suo recente monologo contro il proprio (e nostro) Paese, che dal giorno della Liberazione è abitato se
Dio vuole anche da giudici, liberali e comunisti, ha citato come se lo giustificasse l’opera di uno dei più grandi moralisti della storia, maestro di stile (neo stoico) e di saggezza perfino per Montaigne, l’autore degli Essais, capace di fondere l’eredità di Agostino e quella di Seneca.
Non sa, il presidente del Consiglio, che l’Elogio fu scritto (in una pausa tra gli Adagia e ilCiceronianus) per ironizzare (dato che ogni altra argomentazione sarebbe stata fastidiosamente complice
dell’oggetto della critica) contro persone come lui e i suoi sodali, contro l’immoralità, il cinismo e l’avidità del potere che conobbe in
un soggiorno romano? (Potrebbe leggere, oltre il nostro Garin, un onesto anticomunista come Marc Fumaroli, accademico di Francia).
Ma parliamo pure di «follia», cioè della sua paura, e dell’uso delle maschere.
Nella sua magistrale Storia della Follia Michel Foucault mostrava l’intreccio tra paura della follia e paura della morte alla base della nostra Civiltà - quella che si canalizzò, per esempio, nel capitalismo industriale, nell’introduzione degli orologi e nella sostituzione dei roghi
coi manicomi. Nel Narrenshiff (La nave degli stolti) di Sebastian Brandt, o nella Nave dei folli dipinta da Bosch, c’è già con ironia barocca il teschio di Amleto, e quella Follia-Ragione che ha in Don Chisciotte e Cartesio i suoi intercambiabili alfieri: «la testa che sarà cranio è già vuota. La follia è l’anticipo della morte». «La sostituzione del tema della follia a quello della morte non segna una rottura ma una torsione all’interno della stessa inquietudine.
È sempre in causa il nulla dell’esistenza, ma questo nulla non è più considerato un termine esterno, minaccia e conclusione, ma interno, forma costante dell’esistenza» (Foucault). Altra cosa invece è
l’empia e stupida onnipotenza del Potere, di cui «ciò che la morte smaschera non è nient’altro che maschera». E a cui, per scoprire il ghigno dello scheletro, basterà alzare un volto di gesso. O di cerone.
Il presidente del Consiglio usa la maschera del folle, da sempre avversa al dominio dei potenti, come lasciapassare del potere stesso, il
che non costituisce un paradosso, ma l’espressione della tirannide massima (o il suo sommo delirio). «L’intera v ita umana non è altro che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un’altra, ognuno recita la propria parte finché, a un cenno del capocomico, abbandona la scena», scrive Erasmo. Già, solo il nostro presidente del Consiglio non l’abbandona mai, lui che fa l’attore, il truccatore, il capocomico e soprattutto l’impresario. È pur vero che in Erasmo
il folle ha molte facce: «Se un sapiente caduto dal cielo si levasse d’improvviso a gridare che il personaggio a cui tutti guardano come
a un dio e a un potente non è neppure un uomo, perché come le bestie si lascia dominare dalle passioni, che spontaneamente asservito a
padroni così numerosi e turpi, è l’ultimo degli schiavi (…); e se chiamasse plebeo e bastardo un terzo che mena vanto della sua nobile nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica fonte di nobiltà: se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in
modo da sembrare a tutti pazzo da legare?».
Così Erasmo. È facile riconoscere qui una variazione del famoso apologo della caverna di Platone: folle non è chi crede che le ombre
proiettate sulla parete siano vere, ma per gli occhi abituati al buio e all’illusione è folle chi dice che là fuori esiste un mondo vero, esiste il
sole. È quindi folle, nel paradosso di Erasmo, chi «agisce contro il buon senso, chi non sa adattarsi al presente, chi non adotta gli usi correnti, o bevi o te ne vai, e vorrebbe che una commedia non fosse più commedia». Occorre «fare buon viso all’andazzo generale e partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono, proprio questa è follia…». Non sembra di sentir parlare dell’Unità, e più in generale dell’opposizione politica? «Folle» è chi addita
un’alternativa al regime, chi dice che «il re è nudo». Ma cosa trarre infine da questa sgradevole, ulteriore sbavatura del nostro indossatore
e collezionista di maschere - il presidente operaio, imprenditore, poliziotto, cantante e via dicendo? Qualcuno, eccessivo istigatore di legalità, ha fatto il matto e gli ha gridato «buffone» o «puffone», e si beccherà una seria denuncia.
Un anno fa, ci siamo visti chiamare «intellettuali clown», e qualcuno mèmore del saggio di Starobinski si è addirit tura inorgoglito. Chissà.
Resta che è un inedito della storia il sovrano assoluto che vuole essere anche il proprio buffone, per farsi ridere da solo. Inedito, credo, anche
nella rappresentazione della condizione umana e della sua vita psichica (che conosciamo solo attraverso le sue patologizzazioni).
Ma ogni regime insegna qualcosa sulla psicologia individuale e di massa. Un anno fa scrissi su questo giornale una nota sulla festa di Halloween, citando un bambino che si stupiva con la mamma che gli scheletri facessero paura alla gente: «Siamo noi, no?». Non sapeva quel bambino che le sue parole sono simili a quelle di grandi maestri spirituali, come Ajahn Chah, monaco thailandese della «scuola della foresta», nel cui remoto monastero accoglieva i visitatori con uno scheletro appeso alla sala principale. Scherniva la paura di coloro che camminano, mangiano e dormono con lo scheletro insieme a cui sono nati, eppure non l’hanno mai visto, prova che non conoscono
se stessi. Nei suoi insegnamenti paragonava il proprio corpo a un blocco di ghiaccio che si disfa poco a poco. «Non siamo nessuno», diceva. Ecco, questo vale anche per il presidente del Consiglio. Per prepararsi a questa consapevolezza, che forse nel corso della sua vita ha evitato come la peste, o come i giudici, leggere Erasmo da Rotterdam farebbe davvero bene, come ogni vera letteratura. La quale letteratura, non serve a niente, non dà profitti e non ha alcun potere,
salvo quello di svegliarci, e al dolore del risveglio aggiungere qualche consolazione.
Vita e opere
Nato a Rotterdam nel 1466, Erasmo fu il più famoso umanista del suo tempo. Fu prete e si laureò in teologia a Torino (1506), ma il compito che egli riconobbe suo
proprio fu quello di scrittore e di filologo. Preparò l’edizione di alcuni padri della Chiesa (fra i quali Sant’Agostino) e lavorò a un testo critico del Nuovo Testamento. Morì il 12 luglio 1536 a Basilea. La sua opera più famosa è «l’Elogio della pazzia». Suoi anche i «Colloqui familiari», il «Manuale del Milite
cristiano», le «Introduzioni al Nuovo Testamento», «Sul libero arbitrio» e «Sulla ragione dello studio». Chi volesse cercare in libreria l’edizione dell’«Elogio della
follia » pubblicata da Silvio Berlusconi Editore dovrà rassegnarsi: è fuori catalogo. Potrà scegliere, tra le molte, l’edizione Oscar Mondadori (a cura di
Eugenio Garin) o quella Einaudi (a cura di Carlo Carena).
vita e opere