19/9/2007 ore: 12:47
Conversazione con Bertinotti sull'attualità di Di Vittorio
Contenuti associati
Prima Pagina (segue a pagina 2) Il referendum dei lavoratori? Un lascito di Di Vittorio È convinto, Bertinotti, che Di Vittorio abbia lasciato, sulla Cgil e sul sindacalismo italiano, un’impronta fortissima, molto più forte di quella che De Gasperi, Togliatti e Nenni lasciarono sui loro partiti: «Nei partiti di massa ci furono dei cambiamenti di fondo, persino dove, è il caso del Pci, il continuismo era più forte. Nella Cgil no. Di Vittorio è il fondatore del sindacato moderno in Italia, anche e soprattutto nel senso che ne ha fondato la visione del mondo: “un sindacato autonomo dai padroni, dal governo, dai partiti”, come diceva lui. Ogni volta che la Cgil ha allentato questo ancoraggio, ha perso la bussola». Stiamo parlando del Protocollo, della consultazione, della manifestazione del 20 ottobre, presidente? «Io non so se l’accordo tra sindacati e governo sia, diciamo così, figlio di Di Vittorio. Il referendum indetto da Cgil, Cisl e Uil tra i lavoratori sicuramente sì. E altrettanto sicuramente ha molto da spartire con il lascito di Di Vittorio il fatto che, scandinavi a parte, i sindacati italiani, che pure vivono tante difficoltà, sono i più forti d’Europa. Persino per quanto riguarda il punto più dolente: in Francia di contratti nazionali non si parla più da un pezzo, in Spagna tanto meno, persino in Germania questo istituto è stato ampiamente sforacchiato». Ma su cosa si basò lo straordinario e irripetibile carisma di Di Vittorio? «Anzitutto dalle sue origini, un leader di estrazione popolare e non borghese-intelletuale, uno che poteva dire ai braccianti: "mettevi il cappotto, non il tabarro, così sarà più chiaro che non siete inferiori ai padroni", uno che da giovanotto non comprava da mangiare per poter acquistare i libri, a dimostrazione vivente che l'emancipazione, il riscatto, sono il risultato non solo di un'azione collettiva ma di un duro sforzo individuale. Di Vittorioè statto riconosciuto dai lavoratori come il loro capo naturale anche perché lo consideravano uno di loro, che li rispettava». E poi, a proposito di origini, conta qualcosa il fatto che il giovane bracciante di Cergnola Peppino Di Vittorio fosse un anarco-sindacalista? «Certo che conta. Di Vittorio aderì presto al partito comunista, fu un dirigente dei tempi del ferro e del fuoco, visse la clandestinità e l'emigrazione politica. Ma, per esempio, c'è una traccia fortissima della sua formazione libertaria nella motivazione semplice ma fortissima, che dà tanti anni dopo al dissenso da Togliatti, suo, e della Cgil, di fronte alla sanguinosa repressione dell'insurrezione ungherese: non possiamo stare dalla parte di chi spara sugli operai. Poi sarà costretto a chinare la testa, ma abiura non ne farà. Di Vittorio era un leader di straordinario coraggio. Anche nel cambiare idea, quando si convinceva che era il caso di cambiarla». Nel '55 la Fiom subisce una rovinosa sconfitta alla Fiat, di lì a poco è convocato il quinto congresso della Cgil. «In quella sconfitta pesò moltissimo la durezza della repressione anticomunista e antisindacale, ho ancora negli occhi quei manifesti, "Se voti per la Fiom, attento al posto di lavoro". Ma ricordo benissimo anche quel che disse Di Vittorio: "Se la responsabilità della sconfitta è nostra anche solo per l'uno per cento è di quell'uno per cento che dobbiamo discutere". Al congresso della Cgil, di fronte alla prima modernizzazione del paese, Di Vittorio si presentò sostenendo con forza che il sindacato doveva tener ferma la sua concezione tradizionale della lotta di classe, unità nazionale, conratti nazionali, perché ad ascoltare le sirene della Cisl che, seppure con una visione collaborativa, aziendalistica puntava le sue carte sulla contrattazione articolata, si sarebbero lasciati soli i più deboli, gli ultimi. Nel confronto congressuale cambiò la sua posizione, e di qui, penso, nacque la devozione che gli hanno sempre portato personalità tanto diverse da lui, come Vittorio Foa, Bruno Trentin, Luciano Romagnoli. Si convinse che confrontarsi con i punti alti della trasformazione del capitalismo italiano non significava, anzi, mettere in discussione l'unità dei lavoratori, e che la contrattazione articolata era la base per ricostruire il potere contrattuale dei lavoratori e per riprendere su basi certe la strada dell'unità sindacale: così segnò, poco prima di morire, la storia del sindacato almeno nei due decenni successivi». L'unità sindacale, lei dice. Ma a Di Vittorio capitò, nel '48, di vivere un evento drammatico come la scissione. «Già. Ma qualsiasi altro leader sindacale comunista, in Europa, di fronte alla scissione avrebbe fatto in primo luogo fuoco e fiamme contro gli scissionisti, bollandoli con gli epiteti più sanguinosi. Di Vittorio certo non porse l'altra guancia. La sua affermazione che passò alla storia, però, fu in'altra: "L'unità la ricostruiremo". Ed è dopo la scissione che guadagna, alla Cgil, un grande prestigio. Promuove forze nuove, ma per davvero: quando viene nominato vicesegretario della Cgil, Luciano Lama ha 24 anni. Guida grandi lotte sociali come le guidano altri sindacati in Europa, a cominciare dalla Cgt in Francia, ma con un'altra idea in testa: l'idea di un sindacato che si fa carico anche di interessi generali, oggi diremmo di un sindacato che sia soggetto politico. Vede, l'idea che la Cgil fosse, in quegli anni, una semplice cinghia di trasmissione del Pci è uno stereotipo banale, uno dei tanti in voga di questi tempi. Basta pensare al Piano del Lavoro, una proposta di tipo keynesiano. Molti anni dopo, diventando anch'io un dirigente sindacale, fui tra i suoi critici, e anche adesso non ne faccio l'apologia. Ma quello sforzo di dare al sindacato una sua visione, una sua autonoma comprensione dei processi economici e sociali, fu straordinaria». Bertinotti non è d'accordo con chi (noi tra questi) vede in Di Vittorio per così dire un protoriformista. «Di Vittorio, certo, è il leader sindacale che ha la forza di convoncere i suoi braccianti - negli anni Quaranta, quando i braccianri soprattutto al Sud erano alla fame - a moderare le loro richieste salariali se la controparte avesse fatto concessioni importanti in materia di trasformazioni agricole. Ma era un capo riconosciuto e amato. E la moderazione della sua Cgil contemplava uno scambio politico: io accetto di moderare le mie rivendicazioni se tu in cambio mi dai occupazione, crescita e riforme, a cominciare da quella agraria. Questa moderazione e questo scambio, però, erano illuminati da un'idea di emancipazione, in una parola di socialismo. Le sembrerà un paradosso, ma erano un esercizio di antagonismo: lì dentro si formava, preparando un futuro magari lontano, una nuova classe dirigente». Storie molte, ma molto lontane. Ha un senso politico, continuare a riflettere su oggi, o è meglio lasciare la questione agli storici? «Io penso che questa riflessione abbia un senso anche per capire meglio che cosa sta succedendo adesso. La crisi del sindacato è sotto gli occhi di tutti in Italia dove la concertazione c'è stata come in Francia dove non c'è stata, e persino in Germania. Non poteva essere altrimenti, dopo una lunga fase i cui tratti dominanti sono stati il risanamento e la competitività, non certo il lavoro. In tutta Europa la redistribuzione ha favorito la rendita, in parte il profitto, e ha punito il lavoro: non solo per quanto riguarda il salario, visto che la precarietà è diventata una condizione sempre più diffusa del nostro tempo. Il tentativo di supplire con la concertazione alla diminuzione del potere contrattualedel sindacato non ha dato, mi sembra, i risultati che si speravano. Ma, come le dicevo all'inizio, in questo quadro il sindacato italiano resta il più forte, o il meno debole, di tutti. E credo che il lascito di Di Vittorio c'entri parecchio». Anche con il referendum sul Protocollo? «Certo, anche con un referendum che probabilmente nessun altro sindacato in Europa avrebbe indetto». |