Con il congedo per fare i papà da noi si perde il lavoro
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Giovanni è il numero 59. «Licenziamenti in maternità sportello H». Dice proprio cosi l’indicazione che campeggia nell’atrio dell’ufficio Inps di zona. «Licenziamenti in maternità», come fosse «Pensioni » o «Disoccupazione»: si prende il numero nel distributore automatico e si aspetta, perché allo sportello H c’è più fila che alle invalidità civili. L’indicazione non lo specifica ma lo sportello H è, per via dell’equiparazione, dedicato anche ai licenziamenti in paternità. Una pratica in costante aumento da quando i congedi parentali vengono riconosciuti anche ai padri, come spiega desolata l’impiegata addetta alla ricezione delle domande.
Certo, il fisico asciutto di Giovanni scompare tra le 58 pance che lo precedono,comescompare il numero ancora esiguo di uomini che condividono increduli la sua triste sorte in mezzo ad un mare di donne per le quali il licenziamento causato dall’attesa di un figlio è quasi una tappa obbligata, come il menarca o il primo capello bianco. Eppure ci sono anche loro, i nuovi padri vittime di un sistema lavorativo impietoso con le famiglie. Se la percentuale delle donne licenziate in maternità è di 1 su 5 (ma si sale ad 1 su 3 se si sommano tutte coloro che dopo la nascita di un figlio lasciano il lavoro), la percentuale degli uomini è dieci volte inferiore. Ma bisogna anche dire che, secondo i dati diffusi dall’Inps, meno di 20 mila uomini l’anno richiedono il congedo parentale, contro le 250 mila donne che sottopongono la carriera alle priorità familiari. Il licenziamento in paternità, secondo la legge 53/2000, sarebbe vietato esattamente come quello in maternità, ma tant’è che esiste pure un apposito sportello. E l’Inps non basta per vedere la realtà del mondo del lavoro italiano, in cui una nuova discriminazione ha trovato un posto d’onore: quella tra chi ha figli e chi non ne ha. Lo racconta Stefania, che da oltre dieci anni lavora presso le pubbliche amministrazioni con contratti a termine intervallati da sussidi di disoccupazione. «Avevo partorito da pochi mesi quando fui chiamata da un Comune vicino per un posto da vigile urbano, un impiego temporaneo proprio per una sostituzione di maternità. L’assessore mi disse gentilmente che, avendo io ancora diritto ai permessi per allattamento, non ero idonea a ricoprire l’incarico. Nella graduatoria, subito dopo di me, c’era mio marito. Lo stesso assessore, senza alcun imbarazzo, gli negò il posto asserendo che, essendo padre di un bimbo piccolo, c’era il rischio che usufruisse di congedi parentali. Mi sono chiesta a quel punto se tra i requisiti necessari per trovare lavoro non vi sia la sterilizzazione ». Ci sono poi i licenziamenti camuffati da fine contratto o pretestuosa cessazione dell’attività dell’azienda, senza contare il mobbing o gli avanzamenti di carriera negati: tutte voci che non hanno diritto all’assistenza previdenziale e contro cui spesso è
difficile aprire una vertenza, per cavilli contrattuali che negano l’andamento dei fatti, o per il timore del dipendente di perdere definitivamente il posto. Il caso dell’operaio licenziato perché arrivava in ritardo dovendo accompagnare i figli a scuola è un esempio fortunato, in cui è stato possibile impugnare il licenziamento e reintegrare il dipendente. Ma per un caso risolto ce ne sono cento irrisolvibili, un mondo sommerso fatto di soprusi, illegalità o anche semplici furbizie contro cui nulla è possibile, allo stato dei fatti. Lo sanno bene i centri antimobbing collegati ai tribunali del lavoro e i consulenti dei sindacati, che ricevono ogni giorno centinaia di segnalazioni, così come lo Sportello Telefonico Maternità Paternità aperto dall’Istituto Nazionale di Assistenza Sociale in collaborazione con la Cisl. Proprio mentre alla Camera si discute il ddl per il congedo di paternità obbligatorio (4 giorni retribuiti per dedicarsi al neonato, contro i 30 già concessi in Svezia o gli 11 dei francesi) e si applaudono i dati Inps che decretano un incremento del 40%nella richiesta dei congedi familiari da parte dei padri, si tace sulla triste realtà che più ci allontana dal resto d’Europa: l’Italia non è un paese per famiglie. Dieci anni fa la sociologa Chiara Saraceno rimproverava gli italiani per la loro propensione a lasciare la cura dei figli tutta sulle spalle delle madri. Alla domanda «pensa che un bambino piccolo soffra se la sua mamma lavora?», quasi l’80% degli intervistati si diceva certo del disagio dell’infante e dell’insostituibilità della figura materna: una percentuale non riscontrata in nessuno degli altri paesi europei, dove la condivisione degli impegni familiari era già una realtà. Per completare l’equiparazione di genere e il desiderio di pari opportunità allora oggi la domanda da porre è «pensa che un bambino piccolo soffra se almeno uno dei suoi genitori lavora?»