La caratteristica più importante della proposta di «dividendo sociale», avanzata da alcuni settori del Centro-sinistra, è il suo carattere universalistico. Secondo i fautori di tale proposta dovrebbe essere attribuito un reddito minimo (sotto forma di erogazione monetaria o di credito d’imposta) sia ai non occupati che agli occupati. La proposta di dividendo sociale per essere attuata dovrebbe, in particolare, presupporre l’abbandono della maggior parte delle misure selettive di workfare avviate, in verità molto timidamente, dai Governi di Centro-sinistra, e fondate sugli ammortizzatori sociali, sul salario minimo d’inserimento e sulle misure per i giovani. E dovrebbe dare per scontato ciò che — mi pare — non lo è: cioè che in questo momento storico l’uniformità dei trasferimenti monetari a titolo di assistenza sia sempre preferibile, sul piano etico, a politiche selettive, e che tutti i cittadini abbiano diritto indiscriminatamente a un identico ammontare di risorse. Nella presente congiuntura, anzi, si dovrebbe dare per scontato il contrario, cioè che la tutela dei bisogni debba essere il più delle volte differenziata, come sono differenziati i bisogni stessi. Con la conseguenza che sarebbe più coerente alle politiche finora seguite — e, comunque, più funzionale all’occupazione — definire tali misure e riconnettere a esse il meccanismo dell’imposta negativa, piuttosto che rinunciarvi e costruire ex novo un complesso sistema di dividendo sociale di tipo universalistico.
Attuare subito quest’ultimo sistema avrebbe in ogni caso non solo l’effetto di azzerare gran parte di ciò che di positivo si è fatto e si sta facendo in modo mirato nel campo dell’assistenza e degli incentivi al lavoro, ma richiederebbe anche una riforma dell’imposta personale molto radicale, che non so quanto sia praticabile nel presente momento. Essa dovrebbe essere fondata, infatti, sull’abolizione di un importante strumento di discriminazione qualitativa quali sono le detrazioni da imposta e le deduzioni dal reddito, sull’istituzione immediata di un’aliquota unica intorno al 33% (accompagnata da una sovrimposta sui redditi più alti) e, soprattutto, su un recupero controcorrente dell’originario carattere dell’Irpef di comprehensive income tax, cioè di tributo che consente una piena ed esatta informazione circa l’ammontare dei redditi complessivi. In un modello di tipo universalistico tale informazione è, infatti, necessaria per determinare il livello minimo di reddito sotto il quale ogni cittadino, a qualunque categoria di contribuenti appartenga, acquisisce il diritto a ottenere il trasferimento monetario.
Una radicale proposta di tipo universalistico si presta inoltre ad alcune considerazioni di dettaglio, che mi limito ad accennare.
Innanzitutto, ho il timore che l’interesse a incassare il dividendo sociale, e quindi a creare le condizioni perché esso sia erogato, spinga il cittadino a evadere, cioè a non dichiarare il reddito prodotto attraverso le più disparate attività lavorative. Voglio dire che, quando si tratta di soggetti che producono redditi di importo abbastanza basso, è forte la tentazione a non dichiarare tali redditi.
Se è vero, infatti, che nella logica del dividendo sociale spetterebbe pur sempre loro un credito d’imposta, è vero anche che l’aliquota che colpirebbe tali redditi sarebbe comunque quella del 30-33%: che in assoluto non è elevata (Atkinson nel suo Per un nuovo Welfare, edito da Laterza, pensa a un’aliquota del 40-45%), ma lo è abbastanza per creare un interesse a evadere per i soggetti che stanno tra i 30 e i 60 milioni di reddito annuo. Con la conseguenza che sarebbe certamente più conveniente per loro limitarsi a incassare il reddito minimo e a svolgere l’attività lavorativa in evasione d’imposta. Un’accresciuta onestà fiscale si porrebbe, quindi, come una condizione indispensabile per il corretto funzionamento del dividendo sociale.
L’interesse a vedersi attribuito un reddito minimo garantito potrebbe inoltre spingere il beneficiario a permanere in una situazione di non occupazione. Si tramuterebbe così il dividendo sociale in un disincentivo al lavoro o, se si preferisce, in un incentivo a trascurare la ricerca del lavoro, sul presupposto che il minimo vitale è comunque assicurato dallo Stato.
Giustamente fa rilevare al riguardo Michele Salvati («Il Sole-24 Ore», 17 gennaio; ripreso da Fantozzi, Treu, Pinza e Lombardi sul Sole-24 Ore del 26 gennaio) che, se per evitare tali inconvenienti si imponessero delle condizioni doverose alla fruizione del dividendo sociale (i cosiddetti comportamenti socialmente utili risolventisi, ad esempio, nell’osservanza dell’obbligo scolastico, o nella partecipazione a programmi gratuiti di formazione, o altro), se ne complicherebbe troppo il meccanismo applicativo, andando incontro a costosi sistemi di controllo, che riproporrebbero l’esperienza negativa dei lavori socialmente utili.
In altri termini, si avrebbero contemporaneamente un disincentivo al lavoro e un incentivo all’evasione: una trappola che chiamerei "grigia", nel senso che essa sarebbe prodotta dal fatto che il soggetto che sta ai limiti del reddito minimo, lavora sì alla luce del sole, ma non troppo, e solo nei limiti ristretti che lo portano a non perdere il titolo al sussidio.
Sempre in quest’ottica, non mi convince neanche l’unificazione del trattamento dei redditi di lavoro dipendente con quelli di lavoro autonomo e di impresa, fondiari e finanziari ai fini della spettanza del dividendo sociale. Come non mi convince, in generale, l’operare del meccanismo del dividendo integrato con un’imposta, come l’Irpef, rimasta ormai progressiva e generale solo per i redditi di lavoro e i dividendi oltre il miliardo.
Non credo, in particolare, che abbia un senso l’attribuzione a un lavoratore autonomo e a un imprenditore di un reddito minimo, considerato che questi, a differenza del lavoratore dipendente, possono produrre in un esercizio un risultato negativo e in un altro uno positivo molto elevato. Per cui, fissato il livello di reddito entro il quale spetta il reddito minimo (ad esempio, con un’aliquota del 33% e un dividendo sociale di 6 milioni, tale livello è 18 milioni), il lavoratore autonomo o l’imprenditore possono fruire del dividendo sociale ogni volta che hanno realizzato un reddito inferiore a tale livello, e ciò ancorché negli altri esercizi abbiano realizzato redditi alti. Mentre il lavoratore dipendente, che per la natura della sua attività produce sempre un reddito medio, non potrà fruire mai del dividendo sociale se tale reddito si attesta, seppure di poco, al di sopra del reddito minimo (ovvero ne fruirà come credito d’imposta, scontando però l’aliquota unica — abbastanza elevata rispetto al suo reddito — del 30-33%).
Soprattutto il criterio universalistico non mi sembra funzioni bene in presenza di soggetti rentier, cioè soggetti che, pur possedendo, ad esempio, una "prima casa" e una rendita finanziaria assoggettata a tassazione sostitutiva, non sono tuttavia obbligati a presentare la dichiarazione, perché la "prima casa" è esente e la rendita finanziaria è tassata separatamente. Eppure non può dirsi che essi non siano benestanti e non percepiscano, comunque, un reddito minimo.
È chiaro che il modello di dividendo sociale di Atkinson funziona perché l’universalismo è compatibile e presuppone la comprehensive income tax inglese, dove tutti i redditi sono omologati e riportati nella dichiarazione. Nel nostro caso invece, data la struttura dell’imposta personale, non si può prendere la dichiarazione come unico parametro attendibile al fine di determinare il livello di reddito sotto il quale spetta il dividendo sociale; tanto più che le riforme più recenti tendono a portare il reddito d’impresa e, in prospettiva, anche quello dei fabbricati fuori dall’imponibile Irpef.
Bisognerà inevitabilmente complicare l’applicazione del meccanismo, o facendo dichiarare, ai soli fini del dividendo sociale, pure i redditi non dichiarabili ai fini Irpef, secondo lo schema della "comprehensive income tax", o ricorrendo a strumenti tipo Ise (Indicatori della situazione economica familiare) e cioè al "riccometro". Se si vuol essere universalistici bisogna, in altri termini, integrare la dichiarazione con altre segnalazioni e con il riccometro.
Queste difficoltà costituiscono delle ulteriori buone ragioni per puntare, più realisticamente, su una riforma graduale, che ponga solo sullo sfondo il dividendo sociale e, nel frattempo, razionalizzi la spesa assistenziale già allocata e incentivi l’occupazione, attraverso la messa a punto di un’imposta negativa limitata ai soli lavoratori dipendenti.
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