Coin, la saga dei fratelli intrappolati nell’accomandita
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FINANZA Lunedì 10 giugno 2002
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Piergiorgio rivuole indietro il suo patrimonio, per disporne a suo piacimento, e chiede lo scioglimento della cassaforte di famiglia Ma la causa civile è appena cominciata, i tempi sono lunghissimi e finora la mediazione dei superconsulenti si è rivelata vana
Coin, la saga dei fratelli intrappolati nell’accomandita
VITTORIA PULEDDA
Due principi del foro, menti lucidissime e fini studiosi di diritto tradizionalmente vicini a Mediobanca come Ariberto Mignoli e Carlo D’Urso da una parte; dall’altra Renzo Costi, professore universitario, membro del comitato di studiosi che ha messo a punto la legge Draghi, consulente della Fondazione Manodori per la partita Bipop, tanto per citare l’ultimo caso in cui è stato coinvolto.
Tre calibri da novanta, insomma, tutti e tre presenti all’assemblea di bilancio di una società quotata, che capitalizza in Borsa poco più di 400 milioni di euro. Un’assurdità? No, se la società di chiama Coin e se i suoi principali azionisti, i fratelli Piergiorgio e Vittorio (in ordine di anzianità) litigano ormai da tre anni, a botte di avvocati, tribunali e colpi di scena che si concludono puntualmente con un nulla di fatto. Così, l’ultima assemblea si è tramutata in uno show degno delle migliori battaglie societarie, ma la soluzione sembra ancora al di là da venire. «Siamo entrati preoccupati per le sorti dell’azienda, ne siamo usciti preoccupatissimi e l’unica cosa che vogliamo, a questo punto, è tornare in possesso del nostro patrimonio», spiega Mara Coin, figlia maggiore di Piergiorgio (l’estromesso dall’azienda). «Non capisco la loro strategia, io ho la volontà di concludere un accordo, la mia disponibilità a comprare le quote di mio fratello resta. Ovviamente, sulle basi attuali e non su quelle di due anni fa. Quello che non è più chiaro è se lui vuole vendere», ribatte Vittorio (presidente di Coin).
Tutto comincia a ridosso della quotazione: in un burrascoso cda dell’estate ’99 il consiglio promuove Vittorio, fino ad allora vicepresidente, a presidente, e relega Piergiorgio alla carica di vice. Le spiegazioni, non chiarissime, parlano di scarsa compatibilità tra Piergiorgio e alcuni top manager e, comunque, di una scelta legittima e non drammatica. Cosa abbia scatenato il braccio di ferro tra i due fratelli resta abbastanza oscuro, soprattutto dopo i lunghi decenni di cogestione dell’azienda. Alcuni sostengono che i rapporti più tesi sarebbero tra Piergiorgio e due professionisti, soci d’opera dell’accomandita di famiglia e membri del cda di Coin: Roberto Riccoboni e Alfredo Bianchini (contro i quali, tra l’altro, Piergiorgio ha presentato un esposto all’ordine professione per conflitto di interesse e incompatibilità). Sta di fatto che il fratello maggiore si sente sempre più esonerato dalla gestione dell’azienda di famiglia — ancorché quotata — e decide di vendere le sue quote. Ma l’operazione non è così semplice: il controllo, assolutamente paritetico, è esercitato attraverso una società semplice, la FinCoin (con il 17,5%) e, soprattutto, attraverso la Piergiorgio e Vittorio Coin e c., che ha il 54,1% della società quotata. Peccato che la seconda scatola sia una società in accomandita semplice e che da lì si esca solo esercitando il diritto di recesso.
Una strada che presenta due grossi problemi e, nei fatti, una complicazione quasi insormontabile. I problemi sono che in situazioni del genere il prezzo a cui si può esercitare il recesso non è chiarissimo (e Piergiorgio non si sente abbastanza tutelato); e, ostacolo ancora più forte, Vittorio sarebbe obbligato a lanciare un’opa sulla spa quotata. Ma la complicazione che si è poi rivelata insormontabile, quando un anno fa si era praticamente sfiorato l’accordo, è che Vittorio non aveva i mezzi finanziari per rilevare il pacchetto del fratello. La crisi delle due torri ha complicato ulteriormente il quadro.
A questo punto la situazione appare più impantanata che mai: Piergiorgio non ha alcun interesse a gestire la società e vuole tornare in possesso del suo patrimonio, ma la forma societaria in cui è vincolato non prevede la vendita sul mercato e nemmeno la possibilità di girare il pacchetto ad un nuovo socio, se non con il pieno consenso del fratello. In alternativa, ipotesi ancor più residuale, potrebbero vendere entrambi ad un terzo soggetto. Dal canto suo Vittorio dichiara di voler trattare, ma non si arriva mai ad un accordo, nonostante il prestigioso parterre di avvocati e advisor (Mediobanca per Piergiorgio, Livolsi per Vittorio). Protagonisti di tal livello trovano qualsiasi soluzione di ingegneria finanziaria, compresa quella di evitare l’opa, se c’è la "volontà politica" delle parti. Ma evidentemente le posizioni sul vero nodo — gli aspetti economici — sono lontane anni luce e la soluzione che era sembrata ottimale — mettere il controllo della spa in cassaforte, in una sas — si sta rivelando una camicia di forza per entrambi.
Resta la strada più impervia, quella del tribunale civile (la costituzione delle parti è prevista per il 19 giugno). Una strada dai tempi biblici, che se vedesse vincitore Piergiorgio prescriverebbe lo scioglimento delle due scatole a monte e la distribuzione proquota dell’unico asset custodito: le azioni della Coin spa (tra l’altro, le due società non hanno debiti, quindi l’operazione sarebbe tecnicamente semplicissima).
Nel frattempo, la società in Borsa va male: due anni fa valeva oltre 17 euro, oggi viene scambiata a poco più di 6. E le critiche di chi è stato estromesso dalla gestione sono persino troppo facili: nonostante sia migliorato il fatturato, i conti dell’acquisizione tedesca, la Kaufhalle, pesano come macigni: la riconversione dei punti vendita in Oviesse è appena ad un terzo del cammino, è già stato utilizzato nei bilanci tutto il badwill che la società si era portata in eredità e lo stesso management ha dichiarato che il cammino verso la redditività è ancora lungo, anzi più lungo del previsto; il fatturato del marchio storico, Coin, è sceso rispetto all’anno prima; le perdite consolidate sono state leggermente più lievi rispetto allo scorso anno, ma il dividendo è ancora lontano. «Siamo molto critici rispetto a questo management», conclude Mara Coin. Lo scontro continua.