Chi paga i conti di Saddam? Ecco perché l'Onu è «vitale»
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WAR ROOM 1. IL VERTICE BUSH-BLAIR NON SCIOGLIE I DUBBI Chi paga i conti di Saddam? Ecco perché l'Onu è «vitale» Mercati nervosi: incertezza su contratti, debiti e risarcimenti Può un pensionato di 75 anni della North Carolina traghettare l'Iraq dalle macerie del dopo-Saddam, coordinando ad interim il lavoro di 23 ministeri? Può un discusso uomo d'affari di origini sciite, assurto a leader della dissidenza irachena in esilio solo dopo essere stato condannato per una truffa da 70 milioni di dollari ai danni di una banca giordana, guidare l'autorità locale che affiancherà l'amministrazione alleata con compiti consultivi? I dubbi sulla solidità del piano di transizione delineato dal presidente Bush non si limitano al ruolo del generale Jay Garner e del suo contraltare iracheno, Ahmad Chalabi. Gli interrogativi sul dopoguerra sono tanti e le dichiarazioni rilasciate al vertice di Belfast dal duo Bush-Blair sul «ruolo vitale» che sarà previsto per l'Onu nella fase di ricostruzione non sono riusciti a risolverli. Una confusione ben intercettata dai mercati, che hanno accusato quasi dappertutto timori e nervosismi. C'è ad esempio il problema dei crediti vantati nei confronti dell'Iraq: prestiti internazionali per almeno 100 miliardi di dollari che da 15 anni non rendono interessi e il cui destino dovrà essere chiarito dalla futura amministrazione che si insedierà a Baghdad. Gli stati creditori, sostengono esperti del settore, potrebbero accettare di cancellare questi debiti come parte del loro contributo alla ricostruzione. Ma la questione non potrà comunque essere risolta senza il convolgimento di tutte le istituzioni internazionali interessate, dal Club di Londra al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale, fino alla Commissione di compensazione delle Nazioni Unite (Uncc) che oltre un decennio sta raccogliendo le richieste di risarcimento avanzate da cittadini, società, enti e governi per i danni materiali causati da Saddam nella prima Guerra del Golfo, che sono finora stati stimati in 350 miliardi di dollari. C'è poi il problema delle concessioni petrolifere rilasciate dal regime prima della guerra: solo i contratti assegnati a compagnie russe e francesi, due dei paesi del «fronte del no», valgono nominalmente 38 miliardi di dollari, garantendo diritti di sfruttamento su giacimenti dal potenziale stimato in 1.100 miliardi. Oltretutto per rimettere gli impianti in funzione serviranno nuovi investimenti, soprattutto se si vorrà riportare la produzione a regime, in modo da utilizzare le vaste riserve esistenti (l'Iraq è potenzialmente il secondo produttore di greggio al mondo, dopo l'Arabia Saudita) per finanziare la ricostruzione. Per arrivare ad esempio tra dieci anni all'obiettivo di 6 milioni di barili al giorno, serviranno investimenti per quasi 30 miliardi di dollari. Anche il mantenimento di un contingente di pace avrà un suo costo, stimato in 25 miliardi l'anno, mentre gli aiuti umanitari necessari nell'immediato sono valutati in altri 25 miliardi. Per garantire una legittimità a tutte queste operazioni servirà una nuova risoluzione dell'Onu, sullo schema del programma Oil for food; contemporaneamente dovranno essere rimosse le sanzioni preesistenti. E di questo dovranno discutere i rappresentanti di Francia, Germania e Russia nell'incontro che si terrà a San Pietroburgo sabato alla presenza di Kofi Annan, con l'obiettivo di unirsi alla coalizione alleata per la Partnership for Iraq che dovrà sciogliere tutti questi nodi irrisolti. |