Cgil, le lotte e i risultati: dopo i congressi di base al centro torni il lavoro
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I Congressi della Cgil nei luoghi di lavoro sono finiti. Adesso sarebbe bene che il confronto dentro e tra i gruppi dirigenti cedesse il passo a una riflessione sui problemi che travagliano i lavoratori e le lavoratrici e che hanno segnato tante assemblee, dove si mischiata voglia di confronto e rabbia, bisogno di tutela e sensazione di abbandono. Al fondo la domanda è stata: come è possibile non farsi travolgere dalla crisi e definire un progetto per una Italia migliore con un governo nemico, mentre la politica che non ha più al centro il lavoro e il sindacato è diviso? La mozione 2 ha detto: «Ci vogliono più lotte»; la mozione 1 ha detto: «Le lotte senza risultati non reggono». Sono due affermazioni inconciliabili? A chiunque dotato di buon senso parrebbe di no. Nei gruppi dirigenti il centro del confronto continuano a essere, invece, i voti delle mozioni, conquistati o contestati. Se ci sono situazioni da chiarire è bene che la ommissione di garanzia lo faccia al più presto,ma c’è un dato incontrovertibile. La maggioranza non può pensare che, avendo vinto, non abbia l’obbligo di proporre un terreno unitario di confronto. La minoranza, soprattutto la Fiom che si è confermata parte essenziale dell’organizzazione, non può pensare che si possa bruciare la casa per un contenzioso elettorale e deve assumersi la responsabilità di salvaguardare la credibilità della Cgil, che prepara un difficile sciopero generale il 12 marzo. È il momento di verificare se i gruppi dirigenti sono all’altezza dei compiti che la crisi del paese mette loro di fronte. Ne hanno tutte le capacità politiche e culturali, perché sono composti da uomini e donne con un’idea critica e attiva della cittadinanza, poco deferenti verso le élites e fiduciosi nelle proprie capacità politiche, con un forte senso di appartenenza alla Cgil e ai suoi valori. Sono la generazione che animò le lotte che ebbero il loro centro nel biennio rosso del ‘68-’69. Infatti un terzo dei funzionari e dei dirigenti sindacali delle categorie degli «attivi» sta attorno ai 60 anni. È un dato non molto diverso da quello dei funzionari e dei dirigenti dello Spi. Anche per questa comunanza generazionale il sindacato dei pensionati conserva una forte memoria storica e politica ed è in grado di trasmettere valori e stare al fianco dei lavoratori in lotta. La discussione sul ruolo dello Spi nel congresso e nella confederazione è stata, invece, viziata da un errore culturale, una subalternità ad una concezione produttivistica del destino delle persone, per cui coloro che sono fuori da un rapporto di lavoro contano poco o nulla, sono cittadini dimezzati, un costo sociale. Il punto da cui il congresso deve ripartire è la definizione di un progetto politico per una rinnovata confederalità, che rimetta insieme contrattazione e diritti, categorie e territori. Ora la struttura confederale è sottoposta a scacchi, lacerazioni, fughe in avanti. È una struttura organizzativa complessa, in cui si intrecciano i delegati dei luoghi di lavoro, gli apparati politici e dei servizi, il differente peso delle categorie tra loro e verso la Confederazione. Opera in un contesto con un’elevata frammentazione del lavoro e una spinta crescente alla corporativizzazione delle aggregazioni sociali (per condizioni professionali, sociali, politiche, territoriali). Se ciò non è governato con un progetto politico che susciti consenso potrebbe trasformare l’organizzazione in un sistema autoreferenziale di categorie, territori, tendenze politico-sindacali. Declinerebbe, così, il sindacato soggetto politico della trasformazione sociale, portando a conclusione il percorso di cancellazione della centralità politica del lavoro e dei lavoratori, avviata con il suo abbandono da parte di tanta sinistra. È un rischio che la più grande organizzazione di massa del paese non deve correre.