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29.06.2002 Biagi, lasciato senza scorta da chi specula sulla sua morte di Enrico Fierro
«Devo chiederti aiuto per la mia sicurezza personale...Il timore è che si ripeta con me un caso D’Antona. Ti lascio immaginare come possa vivere tranquilla la mia famiglia... Per ragioni che ignoro a Roma da dieci giorni è stata revocata la scorta-tutela». 15 luglio 2001, un uomo terrorizzato, minacciato, offeso, scrive al suo amico Pierferdinando Casini. Il professor Marco Biagi vince la sua innata ritrosia e si appella all’amico importante. Ha paura, da settimane il telefono di casa sua squilla, una voce senza inflessioni dialettali gli manda messaggi di morte. Il 2 luglio un’altra lettera ad un altro amico importante, Maurizio Sacconi, sottosegretario al lavoro. Biagi non è scortato, ha solo una forma di tutela (un poliziotto che lo accompagna in treno, ma in divisa) che lo stesso professore giudica «una buffonata». «Caro Maurizio, sarebbe meglio agire sul ministero dell’Interno. La mia richiesta è precisa: la trasformazione del servizio di tutela (una buffonata) in scorta vera e propria». 23 settembre, Biagi che dall’inizio del mese riceve telefonate minatorie finanche nella casetta di campagna di Pianoro, scrive allarmatissimo al ministro Maroni: «Caro ministro, desidero informarla che oggi ho ricevuto un’altra telefonata anonima che asseriva perfino di essere a conoscenza dei miei viaggi a Roma senza protezione...Vorrei rappresentarle tutta l’urgenza affinché vengano presi provvedimenti adeguati. Invio la lettera anche al Prefetto di Bologna in quanto tali telefonate si susseguono anche in questa città dove risiedo. Qualora dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo informato inutilmente le autorità senza che venissero presi provvedimenti adeguati». Fermiamoci un attimo. Biagi veniva minacciato - l’ultima telefonata la riceverà la mattina prima di essere ammazzato, l’indagine sulle minacce dura cinque mesi e il fascicolo non viene mai chiuso definitivamente - e aveva informato il ministro Maroni. Il quale (dichiarazione del 20 marzo) conferma e dichiara: «Avevo chiesto più volte al Viminale di ripristinare la scorta per Marco Biagi. E’ inutile negare, ci sono i documenti». Scoppia la bagarre, E il ministro dell’Interno? Nega tutto, nessuno: «Non è ipotizzabile - risponde al Senato il 16 aprile di quest’anno - un mio interessamento mai richiesto da alcuno in una vicenda in cui non sono stato mai informato». Maroni, si saprà dopo, aveva allertato, per così dire, «soltanto» il prefetto della Capitale. Ma nel passaggio della mail indirizzata al ministro del Welfare, c’è un passaggio inquietante: «...invio la lettera anche al prefetto di Bologna». Anche il prefetto, quindi, sapeva. Ma la Prefetura bolognese ha sempre smentito, e con fastidio, ogni notizia sulle richieste del professor Biagi. 24 marzo di quest’anno, il dottor Matteo Piantedosi, capo di gabinetto della Prefettura, rilascia questa dichiarazione: «Smentisco nella maniera piu' categorica che nei mesi scorsi il professor Biagi abbia chiesto un incontro in Prefettura per il problema della scorta e tanto piu' che questo colloquio sia avvenuto». Altra lettera, altre inascoltate richieste di aiuto al Prefetto di Bologna. 1 settembre 2001: «Mi rivolgo nuovamente a Lei per segnalarle la mia preoccupazione per la mia condizione... Ho la sensazione, sig. Prefetto, che la mia situazione sia ampiamente sottovalutata. Ne ho parlato anche con il Presidente Casini che ha parlato col dottor De Gennaro...Ho anche l’impressione che la mia presenza costituisca a Bologna una sgradita incombenza. Ormai troppe volte mi sono rivolto a Lei per segnalare questo statol di cose . Non mi resta che esprimerle di nuovo la mia preoccupazione e la mia profonda delusione per quella che secondo me è una chiara sottovalutazione dello stato di pericolo in cui mi trovo». Tutti sapevano, la terza carica dello Stato, un ministro, un sottosegretario, il Prefetto di Bologna, finanche il direttore della Confindustria Parisi - al quale Biagi manda una mail il 2 luglio del 2001 - nessuno ha fatto nulla per non consegnare ai killer delle Br un bersaglio indifeso. Scrive, Biagi, si appella, chiede aiuto, ma il 21 settembre del 2001 (20 giorni dopo la lettera che Biagi ha inviato al Prefetto di Bologna) il Comitato per l’ordine pubblico di quella città decide di revocargli la scorta, la decisione arriva dopo la scelta del Comitato di Roma che a luglio - quindi dopo la lettere di Biagi a Casini e dopo i contatti che il Presidente della Camera ha avuto col Capo della Polizia - ha deciso che il professore possa fare a meno di ogni forma di protezione. Inquietanti le motivazioni del Comitato bolognese: «Nessun pericolo di vita per il professor Biagi, in virtù di una condizione ambientale di asserita sicurezza nel capoluogo emiliano». Così andarono le cose quattro mesi prima che il professore venisse ucciso dalle Br. Eppure l’8 marzo (dieci giorni prima dell’assassinio) il ministro Frattini presenta al Parlamento la relazione semestrale dei servizi segreti. Si parla dei nuovi obiettivi dei terroristi e si tratteggia, con una precisione impressionante, un dettagliato identikit della futura vittima, si parla di «minacce contro le espresisoni e le personalità maggiormanete impegnate nelle riforme economiche sociali e del mercato del lavoro, e segnatamente, quelle con ruoli chiave in veste di tecnci e consulentui». Neppure questo bastò a convincere che il pericolo non era affatto «cessato». Ci fu anche una inchiesta ordinata dal ministro dell’Interno Claudio Scajola e affidata al Prefetto Roberto Sorge. Non volarono neppure gli stracci. Nessuno era colpevole per la morte assurda del professore bolognese. Così Scajola, il 16 aprile alla Camera: «Si è appurata una evidente distonia nel circuito valutativo a livello centrale e periferico che è stata fondata, distintamente nelle fasi della concessione e della revoca delle misure di protezione, su parametri non omogenei il che ha prodotto risultati disomogenei». Sì, proprio così parlò il ministro che a settembre lanciò la sua personale campagna contro le scorte, «vergogna da cancellare», «inutili status symbol».
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