«Sui Fondi pensione si gioca il futuro»
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Domenica 29 Febbraio 2004
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«Sui Fondi pensione si gioca il futuro» |
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di ROBERTO NAPOLETANO
«Molti lavoratori pensano di conservare le liquidazioni, hanno in testa la seconda casa, ma in questo modo rischiano di non avere niente, nemmeno un mattone. Il mondo è cambiato, e noi abbiamo il dovere di farglielo capire...» scuote la testa Gianfranco Fini. Si interroga a voce alta, ma è ottimista, si rende conto che il traguardo è vicino. Perché sul silenzio-assenso allo sblocco dei trattamenti di fine rapporto (Tfr) si gioca la partita del futuro, e il Paese non si può permettere di perderla. «Dobbiamo spiegare, dobbiamo chiarire e persuadere...» insiste Fini. Il vicepremier non ha dubbi. I fondi pensione sono lo strumento fondamentale per dare certezze ai lavoratori. Per riconoscere in moneta contante i diritti dei figli, oltre a quelli dei genitori, altre vie non esistono. Ma i fondi pensione sono anche, e in questo momento forse soprattutto, un formidabile strumento per realizzare davvero la «democrazia economica»: dare ossigeno alla media impresa italiana, creare un mercato finanziario che assicuri linfa preziosa alle idee vincenti; trasferire risorse e dare solidità alle aziende sane, a chi è abituato a misurarsi ogni giorno con le regole della concorrenza globale ma vive sulla «sua pelle» un divario competitivo in termini di finanza e accesso al credito. Gianfranco Fini è il leader di Alleanza Nazionale e ha alle spalle una storia politica che parte con il vecchio Msi di Almirante e arriva a Palazzo Chigi con Berlusconi. Una storia dove si mescolano radicamenti e spinte da anima sociale con quelle di una destra che si professa liberale; un punto di incontro complicato dove si confrontano quotidianamente pulsioni stataliste e cultura di mercato. In mezzo al guado di un viaggio che lo ha portato a piantare l'albero della pace a Gerusalemme e lo ha spinto a sfidare la sua base elettorale per chiedere il diritto di voto agli immigrati. Forse, per queste ragioni, e magari altre ancora, Fini si è convinto che la scommessa politica del Governo si è giocata e si gioca sul tavolo dell'economia. Nel giorno in cui, da Parma, il suo partito rilancia con forza la proposta di uno statuto dei risparmiatori e di una nuova «architettura istituzionale» che renda effettive la tutela di risparmio, stabilità e concorrenza nel credito, il vice-presidente del Consiglio guarda oltre e indica le tappe del «viaggio del futuro». Se le banche devono assumersi le loro responsabilità di fronte ai risparmiatori, e va disboscata con forza la giunga dei mille conflitti d'interesse che sono emersi puntualmente nei rapporti tra banca e impresa, ma anche tra controllati e controllori, Fini appare consapevole che il sistema ha bisogno di armonia: credito e impresa devono marciare insieme, ma in un quadro di regole certe, trasparenti; fuori da ogni sorta di commistioni. La stabilità è un bene troppo prezioso. Lui non lo dice, però sa che, sullo sfondo, tra una polemica e l'altra, c'è il rischio che qualcuno invochi il ritorno dello Stato nel credito, magari sotto forma di Fondazioni, o che si aprano varchi per l'ingresso degli stranieri. In entrambi i casi non si risolverebbe il problema numero uno: quello di recuperare condizioni di fiducia nel rapporto con i risparmiatori e, allo stesso tempo, favorire la raccolta di risorse finanziarie per sostenere la crescita del tessuto produttivo italiano. Per questo insiste sui fondi pensione: il nuovo mercato finanziario, un «volano» di sviluppo. Ci sono precedenti illustri, i contratti a termine liberalizzati, il nuovo mercato del lavoro. «Come avremmo potuto fare tanta occupazione con la crisi che c'è?» si chiede ancora Fini. Il riformismo è fatto di regole, atti concreti, molta azione, pochi frastuoni. E i risultati, a volte, possono arrivare anche prima del previsto. «Dobbiamo spiegare, dobbiamo chiarire e persuadere...» insiste. Per conservare l'ottimismo, in economia, Fini dovrà superare le «turbolenze» del silenzio-assenso, ma anche quelle della Casa delle libertà. E queste non sono da meno: tra uno strappo e l'altro, i conti dei «lavoratori padani» e un occhio fisso al passato.
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