14/6/2005 ore: 10:33
"StatoLiquido" «Una classe dirigente lontana dai veri problemi della gente»
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dai veri problemi della gente» della scarsa informazione o dell’eccessiva complessità dei quesiti analisi Andrea di Robilant SARÀ stata la scarsa comprensione dei quesiti? L’allergia sempre più acuta all’istituto del referendum? La disaffezione crescente verso la politica? Un eccessivo «stress» politico-mediatico, come ha scritto il sociologo Giuseppe De Rita? Certo è che all’indomani dell’ennesimo flop referendario, l’elettore italiano si trova già adagiato sul lettino per essere scrutato, studiato, analizzato. Ma qualcosa davvero non va oppure la sindrome è meno complicata di quel che sembra? «Ancora una volta l’Italia sbalordisce», dice Giuseppe Roma, direttore del Censis, che certo non si aspettava una diserzione delle urne così forte. «O meglio, la classe dirigente non la capisce più. Alle regionali di due mesi fa il Paese era improvvisamente diventato di sinistra. Adesso si dirà che è diventato clericale. In verità l’elettore sta semplicemente manifestando il suo distacco profondo dalla politica. Sta dicendo: “Voi politici vivete su un altro pianeta. I problemi non sono questi: noi abbiamo paura che il nostro Paese non torni più a crescere”». Insiste Roma: «L’elettore ha capito benissimo che col referendum non si cambia un cavolo e si spazientisce quando lo si mette davanti a quesiti complicati che riguardano cose vaghe sulle quali non c’è alcuna certezza e che comunque riguardano una parte minoritaria della popolazione». Insomma, portare venticinque milioni di italiani alle urne per pronunciarsi «su argomenti così complessi» va ormai considerata un’impresa disperata. Ma se l’esito del referendum ha effettivamente «sbalordito» molti politici, analisti elettorali e politologi che non si aspettavano un astensionismo così massiccio, alcuni lo avevano previsto. E tra questi, gli esperti dell’Istituto Cattaneo di Bologna, che proprio in previsione del referendum avevano messo a punto un modello elettorale rivelatosi alla fine estremamente preciso. Il modello è semplice. Tolto l’astensionismo fisiologico e l’astensionismo tipico di ogni referendum, rimaneva un bacino di elettori potenziali del 64 per cento. «Calibrando il modello sulla base dell’orientamento politico in occasione delle elezioni del 2001, abbiamo introdotto due variabili: l’indicazione dei vari partiti e l’indicazione di voto della Chiesa», spiega Piergiorgio Corbetta, il responsabile per le ricerche elettorali all’Istituto Cattaneo. Risultato: un’affluenza alle urne stimata al 27,4 per cento, cioè molto vicino al dato effettivo del 25,9 per cento (anche le stime per regioni e per aree geografiche si sono rivelate molto azzeccate). «Non c’è dunque da arrampicarsi sugli specchi per cercare spiegazioni sociologiche», dice Corbetta. «Il risultato era assolutamente prevedibile e la sorpresa mi sembra eccessiva. Ma evidentemente la classe dirigente non aveva fatto i conti con due cose: il ruolo della Chiesa e il ruolo dei partiti, due istituzioni che continuano ad orientare il voto degli italiani più di quanto si pensi». Ma Paolo Feltrin, docente di scienze politiche all’Università di Trieste, rimane convinto che l’Italia, al pari di altre democrazie occidentali, stia attraversando «un ciclo di bassa partecipazione politica», e che l’esigua affluenza alle urne in questa tornata referendaria non faccia che confermare questo tendenza. «Non credo alla spiegazione secondo cui l’informazione sia stata scarsa o i quesiti troppo complessi», spiega. «Credo piuttosto che ci troviamo di fronte, ancora una volta, ad un voto di classe: hanno votato i più istruiti, i più ricchi, gli elettori delle fasce di età intermedie. Non hanno votato gli anziani, gli elettori della provincia e delle campagne, i meno istruiti». |