12/3/2003 ore: 10:46
«Segregato da venti giorni. Ma non so ancora perché»
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mercoledì 12 marzo 2003
Said, marocchino di 33 anni, è recluso nel centro di via Corelli a Milano: «Qui succedono cose incredibili».
La protesta dei datori di lavoro
«Segregato da venti giorni. Ma non so ancora perché»
Luigina Venturelli
MILANO Said, marocchino di 33 anni,
è rinchiuso nel centro di via Corelli
da 20 giorni. È uno degli immigrati
in attesa di regolarizzazione a
cui la burocrazia prefettizia ha fatto
la bella sorpresa: «Niente permesso
di soggiorno, dal terminale compare
un bollino rosso sul suo nome».
Inutile qualsiasi tentativo di scoprire
il significato di un simile marchio
d’infamia.
Ora aspetta nel centro di detenzione
temporanea di conoscere il
suo destino: non sa perchè si trova
lì, non sa quanto ci rimarrà, non sa
dove lo porteranno se mai lo lasceranno
uscire. «Per passare le giornate
leggo i giornali e un libro di Herman
Hesse che ho trovato nella biblioteca
del centro. Ma non serve a
distrarmi, non faccio altro che pensare
al perchè mi sta succedendo
tutto questo e sperare che la storia
finisca con quel permesso di soggiorno
per il quale avevano detto di
convocarmi». Un’attesa logorante e
sempre uguale nelle tre settimane
ormai trascorse dal suo arrivo, una
monotonia rotta soltanto da qualche
incursione della polizia: «Al minimo
disordine gli agenti entrano e
si mettono a picchiare con dei bastoni.
Sono cose da terzo mondo, eppure
succedono anche qua, in questo
posto nascosto dove gli agenti
sentono di poter agire indisturbati».
Per il resto della giornata Said fa
quattro chiacchiere con gli altri
ospiti di via Corelli, in gran parte
portati qui direttamente da qualche
carcere. La sua storia, invece, è diversa:
ha una laurea in informatica
e marketing, lavora in Italia da cinque
anni come cameriere in attesa
che un permesso di soggiorno gli
consenta di cercare un posto in linea
con i suoi studi. «È uno dei
migliori dipendenti che ho mai avuto»
racconta Cosimo Vezzoni, il
proprietario dello Shambala,
l’esclusivo ristorante etnico in cui Said
ha lavorato fino a pochi giorni fa.
«È un cameriere bravo, una persona
tranquilla, e parla quattro lingue.
Per ora non so quello che potrà
succedere, ma non ho alcuna intenzione
di cercargli un sostituto».
In effetti, la ricerca di personale
extracomunitario selezionatissimo
e molto apprezzato dai datori di lavoro
sembra essere il carattere principale
delle decine di espulsioni
istantanee e immotivate di questi
giorni. Sugli stessi toni, infatti, anche
un altro imprenditore che si è
visto sottrarre il proprio dipendente:
Antonio, proprietario di una piccola
impresa edile di Rho. «Il ragazzo,
albanese di 21 anni, è un muratore
diligente e volenteroso». Il nome,
però, è meglio non rivelarlo: se
lo fermasse la polizia, potrebbe anche
arrestarlo, in quanto, essendo al
completo il centro di permanenza
temporanea, gli è stato semplicemente
intimato di lasciare il paese
in cinque giorni. Il ragazzo, invece,
è restato a casa ad attendere l’esito
del ricorso. «Quando l’ho assunto,
più di sei mesi fa continua il suo
datore di lavoro lo conoscevo già
da tempo, alcuni suoi parenti già
erano miei dipendenti. Sapevo che
era uno bravo. Quando in prefettura
mi hanno fatto allontanare per
poi trascinare il giovane in questura,
quasi non ci volevo credere. Ho
subito chiamato un avvocato».
Così ora tutte le speranze di queste
e di altre persone coinvolte in
casi simili sono riposte nella legge.
O, meglio, nella serie di strumenti
che il nostro ordinamento si è dato
per correggere le storture di certi
provvedimenti legislativi. Una ventina
di giovani avvocati milanesi, riunitisi
spontaneamente in una sorte
di rete volontaria di sostegno, sta
cercando da giorni le vie legali più
indicate per risolvere questa assurda
situazione. Tra le altre, un’azione
per discriminazione razziale e
l’eccezione di incostituzionalità della
circolare D’Ascenzio su cui questi
provvedimenti si basano.
«Intorno a questo caso di giustizia
racconta l’avvocato Paolo Oddi
si sta facendo viva tutta l’avvocatura
democratica milanese. Mi ha
appena chiamato una collega di 70
anni, indignata per quello che sta
succedendo, per offrirmi anche la
sua collaborazione. E non è stata la
sola».
Paolo è stato il primo legale a
sollevare il caso: si trovava in questura
per una pratica e casualmente
è venuto a conoscenza della storia
di Olga, la badante ucraina prelevata
e rimpatriata, ovviamente non si
sa perchè, nel giro di 48 ore. Da
quel momento sono bastate poche
telefonate: qualche amico che lavora
alla Caritas o ai sindacati, e la rete
era costituita. «Vogliamo semplicemente
porre fine a questa palese violazione
dello stato di diritto». In gran parte si
tratta di giovani avvocati che lavorano
come volontari.
«Io mi occupo di diritto del lavoro ricorda
Silvia Gariboldi, di 33 anni
e collaboro con l’ufficio legale della
Cgil. La stragrande maggioranza
delle cause che ci capita di seguire
riguarda lavoratori extracomunitari».
Un problema generale, dunque.
Una questione di giustizia, quella
con la G maiuscola.