26/11/2002 ore: 11:13

"Ricerche/3" «Il salotto buono declina ma non si apre»

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              RICERCHE/3 Lunedì 25 novembre 2002



              L’allarme di Bersani
              «Il salotto buono declina ma non si apre»
                  Ripiegamento. Pier Luigi Bersani sceglie questo termine per indicare quanto sta succedendo nell’industria e nel capitalismo italiani. Un ripiegamento, nella sua analisi, drammatico. Già ministro dell’Industria con il governo D’Alema, ds, questo pericolo Bersani lo aveva sollevato in una lettera scritta alcuni mesi fa al Corriere della Sera . Nell’era della globalizzazione avanzata - sosteneva - la debolezza del nostro sistema capitalistico-industriale è arrivata alla resa dei conti: le grandi imprese non riescono a competere, quindi escono dai settori a forte concorrenza e si rifugiano in quelli regolati, dove la tariffa conta più della capacità di stare sul mercato. Ci si chiude, insomma. Oggi, in più, a suo parere, c’è un governo che «abbassa l’asticella», rende meno aperto e attraente il Paese dal punto di vista del business: nella classifica della libertà economica, quindi, non siamo destinati a risalire in tempi brevi. Inoltre, il capitalismo dal sangue blu, dice Bersani, preferisce morire piuttosto che aprirsi.
                  Sempre convinto che stiamo ripiegando?
                  «Lo hanno confermato i fatti. Mi pare una tendenza indiscutibile che ha esempi sia nelle antiche forze del capitalismo italiano sia nelle new entry. Vale tanto per gli Agnelli quanto per i Benetton».

                  Spieghi meglio.

                  «La grande impresa italiana ha da sempre un problema di governance e un problema di rapporto con la finanza non risolti. In questo siamo diversi da ogni altro luogo d’Europa. In Francia, Germania, Inghilterra abbiamo banche e assicurazioni che detengono nuclei di riferimento in grandi imprese, che per il resto hanno un azionariato diffuso. In Italia no. E questa si sta rivelando una debolezza strutturale che, di fronte alla sfida dell’economia globale, ci porta a un capolinea, a un redde rationem. E’ di fronte a questo che scatta un meccanismo di ripiegamento: ci si sottrae ai luoghi di più acuta competizione e si ripiega sul mercato interno e possibilmente in settori tariffati, regolati».

                  Le piccole e medie imprese continuano a competere.

                  «Ma ci manca il contributo specifico della grande impresa. Il che significa due cose. Primo: non riusciamo a essere attori nel globale se non a livello di nicchia. Secondo: questa situazione ci deprime paurosamente dal lato delle grandi dinamiche tecnologiche».

                  In questo quadro mette anche la crisi Fiat?

                  «Sì, anche la Fiat. Abbiamo avuto anni in cui ha investito poco sull’auto e ha diversificato, fino all’ultimo intervento che ha fatto su Edison».

                  Treno perso per l’industria italiana?

                  «Servirebbe mettere in campo risorse capaci di entrare in nuove avventure. Portare sangue nuovo in grandi avventure industriali e tecnologiche io non lo vedo impossibile. Però lì scattano i meccanismi difensivi».

                  Cioè?

                  «Si accetta persino di morire, come grandi sistemi industriali, pur di non perdere aplomb».

                  Aplomb? Cosa intende?

                  «Se in questi dieci anni avessimo avuto meno salotti e ci fossimo accostati al tema del suscitare in Italia nuove energie, sono sicuro che non saremmo in questa situazione. Se però i luoghi classici del potere economico e finanziario preferiscono vivere la decadenza piuttosto che mescolare il sangue, allora non c’è rimedio».

                  Ma qui decade il Paese.

                  «Certo. E io non accetto questa deriva. Di fronte a questo ripiegamento serve una policy che tenga alta l’asticella, non che la abbassi. Quando sento correre idee per cui c’è da refluire dal privato verso il pubblico, dalle liberalizzazioni verso lo statalismo, dall’immigrazione verso la chiusura nei confronti degli immigrati, dalla scuola per tutti verso la divisione tra chi sa e chi fa, quando vedo i condoni, penso che siano tutti messaggi al sistema per dire "abbassiamo l’asticella e tiriamo a campare"».

                  Va bene, ma cosa si dovrebbe fare?

                  «Dobbiamo intervenire sul lato banca/impresa. Oggi abbiamo banche che sono azioniste di grandi imprese per caso, anzi, per disgrazia. Si può partire da qui? Mi chiedo se possiamo pensare di costruire un’industria medio-grande cercando di somigliare un po’ a chi queste cose già le ha. E cioè ingaggiare le banche, le strutture finanziarie, le assicurazioni insieme a imprenditori per raccogliere risorse».

                  Banche che evolvono verso un ruolo simile a quello che hanno in Germania o in Francia?

                  «Almeno in alcuni casi sì. E aggiungo che potrebbero essere i soggetti che portano un po’ di quel sangue nuovo di cui parlavo».

                  Difficile che possa bastare.

                  «Occorre anche continuare le liberalizzazioni, concentrare le risorse su ricerca e innovazione. E avere l’attitudine a risolvere i problemi: questo governo, invece, ha abbandonato ogni iniziativa attiva. Sono certo, per esempio, che non ha idea se in Italia ci sia qualcuno disposto a fare una mezza proposta sul caso Fiat. Non c’è passione per gli asset industriali del Paese. Sta prevalendo l’idea che gli italiani mangino pane e tv».

                  Ormai non si parla più di liberalizzazioni.

                  «Anzi, stiamo andando in direzione opposta. Quando sento le interviste del ministro Tremonti prendo paura. Se pensiamo di risolvere i nostri problemi col colbertismo siamo a posto. E’ questo che disamora il mondo dal fare operazioni in Italia. Il blocco delle privatizzazioni, i continui cambiamenti fiscali, l’intervento sulle tariffe e ora Tremonti che si dichiara protezionista sono fatti che creano sconcerto negli investitori. Il governo non crea una psicologia amichevole verso il mercato. E mi chiedo qual è l’investitore estero che viene in un Paese dove non si finanzia la ricerca con una lira».

                  Un’analisi disastrosa.

                  «No. Io sono ottimista. Ma non so perché».
              Danilo Taino

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