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giovedì 28 aprile 2005
Retroscena
FERMENTO E AGITAZIONE TRA I PEONES DELLA CDL Il new deal del premier sconvolge le sue truppe Sospesi tra il partito unico e la fedeltà al progetto
Antonella Rampino
ROMA INARRESTABILE, e capace di far diventare romanzesco qualunque fatuo accidente, foss’anche una crisi di governo: a Montecitorio tutti aspettano Silvio Berlusconi, alla prova del voto che deve mantenerlo al comando, di certo lo spettacolo più inatteso della stagione. Lui ha soddisfatto le aspettative, rilanciando se stesso, il governo e il contratto con gli italiani, ovviamente galvanizzato nel discorso di replica non dall’opposizione che lo sprona e sghignazza, ma dall’obiettivo della telecamera, il vero e unico tonico della giornata, altro che quell’amaro Averna ghiacciato alla buvette. Ma tra una passata di fazzoletto a lenire il sudore incipiente e una passata in Transatlantico attirando microfoni, ha detto anche tutto il contrario. «La mia leadership? Ma se non ce la faccio cedo il passo ai cinquantenni». Il partito unico? Boh, dicono tutti un po’ sì, un po’ no...Insomma il premier sembrava uno dei suoi deputati peones, interpretando al meglio il mood dei suoi parlamentari, l’umore delle truppe del futuro Partito della Libertà, il cui acronimo chissà quanto felice sarà poi Pdl, lo stesso di «progetto-di-legge»: sospesi sull’orlo dell’abisso, cercando di guardarlo, tentando di non caderci dentro. Ripetendo a parole alta fedeltà al progetto, alla coalizione, al governo. E cercando di capire: cosa sarà di me? Secondo la perifrasi meteorologica di Rocco Buttiglione: «Moto ondoso ancora forte lungo la rotta tracciata». Silvio Berlusconi come Nuccio Carrara, absit iniuria verbis. Il quale, dopo anni d’attesa, alla fine è diventato sottosegretario. «Però su quella poltrona non mi ci sono ancora andato a sedere. Aspettiamo la fiducia e vediamo, mi sono detto. Sa, io sono siciliano di Militello, i riti scaramantici servono...».
Dicotomia, scissione, schizofrenia. Basta vedere com’è stata accolta l’idea con la quale un Berlusconi sull’orlo della retromarcia ha innestato una prima da Suv: il partito unico. «Benissimo, ma non sia una scorciatoia» (Alemanno, An). «Sono contrario, meglio una Confederazione degli Italiani» (Tremaglia, An).«Serve un congresso» (Baccini, Udc). «Serve il Ppe italiano» (Buttiglione, Udc). «Serve un vertice di maggioranza» (Calderoli, Lega). «Non se ne parla, perlomeno per noi» (Maroni, Lega). «La Lega con molti suoi esponenti ha detto sì» (Silvio Berlusconi, premier). Alla fine, il via libera pieno arriva solo da Bondi, Cicchitto, e Di Pietro. Che forse non ha capito bene, o forse raccoglie le parole di suocera perché nuora intenda.
E dunque Berlusconi forse sarà anche, politicamente parlando, un premier «triste, solitario y final» come dice il comunistissimo Diliberto con citazione non a caso sudamericana, non a caso letteraria. Però di certo quel «numero fantastico Prodi e Fassino non ce l’avrebbero mai regalato» (Sabattini, Ds). Però di certo, andate in soffitta tutte le fumisterie da Repubblica democratica, Prima o Seconda che fosse, fumisterie del tipo far giurare fedeltà alla Costituzione uno a uno i 72 sottoministri, rito da ieri passato in carriera grazie alla prorompente rapidità di giuramento unico, collettivo, ecco, forse non resta di meglio, come dice il margheritino Franco Monaco che «chiamare il mago Otelma, per la prossima volta».
Scene da una crisi di governo inedita, che qualcuno (Dario Galli, Lega) non ha «nemmeno ben capito perché c’è», tra lo spaesamento del peone, e dalla «a» di Agostini alla «zeta» di Zanella a parlare sono in trentasette, per stare solo a Montecitorio e solo al dibattito generale. Inedita perché, per dirne solo una, Berlusconi che non aspetta il risultato del voto di fiducia, altro rito lungo e stancante con la chiamata dei deputati uno a uno che vanno sotto lo scranno del presidente a dare il loro responso, si è però sciroppato addirittura pezzi di dibattito. E a un certo punto, uditone uno che declamava «...Perché questo governo è stato il più lungo di tutta la storia della Repubblica...», Berlusconi se ne va a stringergli la mano. Riflesso pavloviano, perché poi si trattava di Ruzzante Piero, deputato diesse che ha esercitato sempre la propria veemenza oratoria contro ogni berlusconiano provvedimento, imbarazzatissimo e subito canzonato dai compagni. Inedita perché poi, fantastico intervento berlusconiano a parte, elementi di pura surrealtà accantonati, l’attenzione di tutti è puntata solo su uno. Follini. Che fa Follini? E’ gelido? Ha applaudito? No, mai. E invece sì, ma per pura formalità alla fine, quando un Berlusconi che sembrava Bassanini ha urlato «...perché a fondamento della democrazia ci sono i checks and balances...». Follini, eccolo il vero protagonista della giornata. Vota o non vota (vota, vota, faceva sapere già ore prima Berlusconi). Plaude o applaude (plaude, plaude, plaudirà alla fine anche al partito unico, garantiva sempre Berlusconi in Transatlantico). Punge e trafigge, oppure ce la farà, tra il doroteo e il moroteo (come sembra a Cossiga, che aggiunge pure un «nobile» di lode), a prendere le distanze riconfermando la fiducia, a tenere in sella il premier appannandone la leadership, a riconfermare quello che al tavolo di poker si chiama «chip» oppure «vediamo» tenendosi libere le mani, e in specie quella che serve in Aula per votare i provvedimenti vari, sul programma. Perché poi, come si sa, anche le formiche, nel loro piccolo...
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