17/9/2003 ore: 12:12

«Prossimo passo: liberalizzare il ritiro dal lavoro»

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17 Settembre 2003

«Prossimo passo: liberalizzare il ritiro dal lavoro»
Gli esperti al convegno Cerp: buona ma lenta ad andare a regime la riforma Dini
Luigi Grassia

TORINO
Sull’avvenire delle pensioni, e in particolare sulla necessità di alzare l’età minima per maturarne il diritto, il dibattito infuria fra i politici e nella pubblica opinione, ma non fra gli studiosi indipendenti: dal convegno internazionale organizzato ieri dall’istituto Cerp, il quarto della serie, presso il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, è emerso come punto fermo che fare andare i lavoratori a riposo più tardi è una necessità ineludibile in tutti i sistemi europei, incluso quello italiano. E davvero non è un caso frequente che da un dibattito si arrivi a una ben definita conclusione che metta d’accordo tutti i partecipanti, a prescindere dai loro diversi orientamenti politici.
Alzare l’età del pensionamento non significa necessariamente ridurre il margine di scelta dei lavoratori; anzi il titolo dell’incontro recitava: «L’età di pensionamento obbligatoria è un fatto obsoleto?», e anche qui si è raggiunto un consenso e la risposta è stata che sì, è ora di liberalizzare pure questo. Il prof. Richard Disney dell’università di Nottingham ha sottolineato addirittura che il sistema britannico, l’unico in equilibrio finanziario fra quelli dei grandi Paesi europei, «non prevede neanche più un’età legale di ritiro ma solo un’età per la pensione, dopo la quale il dipendente riceve l’assegno ma può continuare a lavorare per quanto vuole». Analoga libertà, è stato suggerito da tutti gli studiosi intervenuti, andrebbe introdotta nei sistemi europei anche al ribasso, cioè per permettere a chi lo desidera di accorciare la sua vita lavorativa. Ma la contraddizione con la necessità di alzare l’età pensionabile è solo apparente: perché, come ha notato Elsa Fornero, direttrice del Cerp, «è indispensabile correlare strettamente quel che si prende di pensione con quel che si è effettivamente pagato di contributi»; allora sarà automatico ricevere un assegno ridotto se si vuole essere baby-pansionati, e più cospicuo se si lavora più a lungo. Alzare l’età della pensione significa quindi, più precisamente, alzare l’età di riferimento che dà titolo alla pensione piena.
Il prof. Axel Börsch-Supan, «padre» della riforma previdenziale tedesca del 2003, ha ammonito che il sistema di incentivi o disincentivi deve essere forte, «perché l’esperienza dice che, altrimenti, solo un terzo dei lavoratori va davvero in pensione più tardi». Börsch-Supan ha concordato coi colleghi nel valutare «buona ma troppo lenta ad andare a regime» la riforma Dini.
L’unanimità fra studiosi non si è estesa ai rappresentanti delle parti sociali. Il segretario confederale della Cisl, Pier Paolo Baretta, ha detto che la riforma Dini non si tocca, a meno che questo non sia nell’ambito di una riforma molto ardita, che ha provato a tratteggiare così (i convegni servono anche a lanciare idee del genere): «Dare a tutti i lavoratori una pensione di base di 512 euro, il minimo vitale riconosciuto dal governo, a carico della fiscalità generale, e a questa base aggiungere pure un contributivo pro-rata in tempi rapidi e la previdenza integrativa: così si farebbe una riforma definitiva in due anni». Giulio De Caprariis, vicedirettore del Centro ricerche di Confindustria, ha osservato che

la riforma Dini ha anticipato quella tedesca anche nel prevedere una indicizzazione delle prestazioni all’incremento della produttività: «Forse pochi se ne sono accorti, perché la disposizione è oscura, ma questo elemento c’è».

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