18/10/2005 ore: 12:17
"Primarie" Prodi, vittoria costruita in piazza e non in tv
Contenuti associati
SCELTA VOLUTA E NON POLEMICA CHE HA CAMBIATO LE STRATEGIE DEL CENTROSINISTRA Prova ne è la «rumorosa» assenza di Prodi dalla trasmissione forse più sensibile ai messaggi ulivisti, cioè Ballarò, dove finora non si è mai visto. A differenza di Fassino e Rutelli, ospitati nel molto seguito salotto di Floris per ben sette volte ciascuno nell'ultimo anno (settembre 2004/settembre 2005). Insomma il metamessaggio dell'ex presidente del Consiglio è chiaro: si vince anche senza la tv, anche quella più simpatetica e militante. Una vittoria ancor più fragorosa se si considera in parallelo che il sistema Mediaset sta subendo in modo sempre più pesante le pressioni di normalizzazione polista, tanto che ieri i tg del Cavaliere, pur dando correttamente la notizia, enfatizzavano oggettivamente oltre il dovuto la fronda interna di Mastella, come a dire che a sinistra anche quando vincono litigano... Tuttavia, evidenziare che la vittoria di Prodi sia solo un plebiscito contro la televisione sarebbe sbagliato. Intanto, l'affluenza record parte dal lontano. Precisamente dal 2002, anno in cui, freschi di batosta elettorale, i diessini decisero di trasformare l'esilio televisivo in un punto di forza sviluppando un «ritorno al territorio» capillare e palmo a palmo. Ricordate? Piero Fassino, al congresso di Pesaro eredita un partito demotivato, scollato, impiccato a equilibrismi politico mediatici assolutamente autoreferenziali. Il ritorno al territorio della gauche faceva quindi di necessità virtù ma fu un'intuizione sacrosanta: più circoscrizioni, più sezioni, più comizi in risposta all'esclusione dal mezzo radiotelevisivo. In secondo luogo, al netto del marketing politico, la scelta di Prodi di identificarsi sul piano mediatico all'area diessina (l'investitura al Congresso di febbraio al PalaLottomatica), ha gettato le basi di un piano di comunicazione efficace: individuare un core business (cioè la Quercia) attorno al quale costruire il consenso. Anche a costo di creare frizioni con la Margherita. A proposito di Margherita: Prodi, giustamente incalzato da Rutelli, ben sapeva che il consenso della base ex comunista non sarebbe bastato, di qui l'insistenza sulla sopravvivenza anche mediatica dell'idea ulivista da coltivare appunto attraverso le primarie. Detto fatto: i dati di ieri vanno ben al di là della dimensione strettamente partitica, e forse per la prima volta sconfinano davvero in quella mitica area moderata, utilizzando l'apparato come cavallo di troia per la conquista di consensi fuori dall'area di riferimento. Non basta. Il voto di domenica suggerisce altre due considerazioni. Uno. In comunicazione la continuità di nomi, simboli e volti è sempre un valore prezioso. Non a caso le case automobilistiche non cambiano più i nomi dei loro prodotti leader, sanno che è un suicidio, una scelta impopolare. Traslando sull'Unione: l'esigenza di unità, armonia, coesione e riconoscibilità è assolutamente reale. Le risse hanno stancato. Il popolo dell'Unione ha scelto chiaramente Prodi e mandato un segnale netto ai suoi leder: state uniti. Per chi si occupa di strategie di comunicazione, si tratta di un'assoluta ovvietà; per la comunicazione politica italiana (e qui la critica di Prodi ai giornali trova un reale fondamento), un amaro monito. Due. L'affluenza di ieri ha provocato anche una specie di inversione di ruoli. Mi spiego: una parte dell'Unione sembra ormai aver smesso di demonizzare il premier (la partecipazione di ieri è stata tutta positiva e gioiosa, non livida), confinando nel ruolo degli antipatici Pierini i vari Cicchitto, Gardini, Bondi e Calderoli che hanno dedicano una buona dose delle loro dichiarazioni pubbliche a parlar male della sinistra e degli avversari. Con la coda francamente patetica del ministro La Loggia, che via tg e radio ha ridicolizzato la scelta di quattro milioni di italiani, un harakiri del marketing berlusconiano un tempo impensabile. |