1/2/2007 ore: 11:49

"PD" Replica all’editoriale di Macaluso (P.P.Baretta)

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    giovedì 1 febbraio 2007

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    REPLICA. ALL’EDITORIALE DI MACALUSO SUL PD
      Sull’unità sindacale dei riformisti
      non sono d’accordo ma discutiamone

      di Pier Paolo Baretta
      Segretario generale aggiunto della Cisl

      Emanuele Macaluso dedica, sul Riformista del 30 gennaio, una riflessione sul tema della unità sindacale e osserva che se si persegue la unità politica dei riformisti nel costituendo Partito democratico, bisognerebbe, analogamente, perseguire la unità sindacale. E si chiede come mai i sindacalisti non ne parlino.

      Nella riunione «Verso il Partito democratico: il lavoro prima di tutto», che si è tenuta a Roma nei giorni scorsi, il tema dell’unità sindacale è stato posto. Lo ha fatto Achille Passoni concludendo il suo interessante e importante intervento. Il ragionamento di Passoni è chiaro e, mi sembra, assomiglia a quello di Macaluso. Intervenendo subito dopo ho sostenuto che lo stimolo posto da Passoni non andava lasciato cadere, ma doveva misurarsi pienamente con il tema primario della autonomia del sindacato da ogni governo e da ogni partito. Riprendo questo argomento, perché, pur dando una risposta diversa da quella di Macaluso, sono convinto con lui che la questione non è eludibile. Non solo: se si lascia che essa venga agitata, con un misto di nostalgia e ideologismo, rischia, per la natura stessa della storia del sindacalismo (non solo italiano), del riformismo e della sinistra, di generare equivoci che potrebbero avvelenare i pozzi di una coraggiosa innovazione strategica dalla quale attingere le nuove energie necessarie al rilancio di un sindacalismo moderno, innovatore, solidale e, per questa via, riformatore.

      La profondità del cambiamento intervenuto, in pochi anni, nella società e nel lavoro è tale che se si vuole affrontare seriamente il futuro si dovrebbe parlare per il sindacato, come per la politica e le istituzioni, di una fase «costituente». In tal senso il dibattito sulla unità ci sta. Ma, quali sono i dubbi e gli ostacoli? Individuo tre terreni scivolosi.

      Il primo, decisivo, è l’autonomia. Nella società contemporanea il sindacato deve rappresentare la pluralità degli interessi (non la totalità!), ma anche la loro specificità. Per farlo seriamente, direi deontologicamente, si deve saper nettamente distinguere tra la rappresentanza politica e quella sociale. Noi ci diciamo, spesso, che il lavoratore usa un criterio quando va in cabina elettorale e un altro quando si rivolge al sindacato. Succede frequentemente che si chieda proprio al sindacato di essere tutelati dalla ipoteca del proprio voto. Il problema è accentuato dal bipolarismo. Non è sufficiente dichiararsi autonomi nei confronti del proprio partito o del proprio governo, solo perché si contratta all’interno di essi gli spazi per il lavoro (altri per le professioni; altri per le arti). Si tratta di riconoscere che, in una visione matura della democrazia, il gioco delle rappresentanze e degli interessi non si chiude nella gestione della propria corporazione, affidando la sintesi a una sede «più alta». In tal senso, non esistono per il sindacato «confederale» governi amici o schieramenti ai quali appartenere come organizzazione. Si dirà che questa concezione si è ormai affermata; eppure basta osservare comportamenti in questo scorcio di legislatura per capire che non è così. Vi è, in questa posizione, il rischio del pansindacalismo o della acritica neutralità che diventa sterile equidistanza? No. Se il sindacato si presenta nell’agone con una propria idea e accetta un confronto aperto e costante (direi, interattivo) con la politica attraverso il quale riconoscere, senza finzioni, le affinità e la comune visione sociale. E, se, reciprocamente, siamo convinti che dialettica sociale, che vede i «corpi intermedi» della società svolgere un ruolo non subalterno alla politica, sia la condizione essenziale per lo sviluppo economico: Si rileggano, in quest’ottica e senza lenti di parte, le vicende del 1984, con l’accordo di san Valentino e il successivo referendum sulla scala mobile, o quelle del 1992/93 o, più recentemente quelle del patto per l’Italia. In nessun caso si può dire che il risultato sia stato dettato da logiche di schieramento.

      Il secondo terreno è dato dalla rappresentanza. Perché il sindacato dovrebbe inibirsi di rappresentare, su questioni importanti per la vita di tutti (lavoro, welfare, cittadinanza) le domande di milioni di persone che si dividono su chi deve governare, ma molto meno sulle proprie pensioni o sul proprio reddito? Non si tratta solo di una questione di opportunità. Si tratta, anche qui, di una concezione del sindacato e, direi, della stessa persona. Il sindacato è una casa più ampia delle case politiche. Proprio il superamento degli steccati ideologici se porta, in via teorica, acqua al mulino della unità, al tempo stesso rende plausibile la pluralità sulla base di appartenenze valoriali e strategiche. Si guardi alle nuove forme associate di rappresentanze (i consumatori, gli ambientalisti). A loro si chiede, giustamente, di coordinarsi, di esprimere una posizione omogenea, di misurarsi nella rappresentatività, ma a nessuno viene in mente di chiedere che facciano una fusione in una sola associazione. Chiediamoci: il pluralismo delle cooperative, degli artigiani, delle associazioni imprenditoriali è una risorsa o un limite? La risposta è aperta, ma non si può negare che in democrazia il pluralismo aiuta. Si può leggere anche in ciò la forza del sindacalismo italiano che è uno dei più forti del mondo. Bisogna chiedersi se la reductio ad unum sia davvero la prospettiva più efficace per il rilancio del sindacalismo. Diverso e urgente è chiederci di fare importanti passi in avanti verso un sistema codificato di regole comuni sulla misura della rappresentanza, sul sistema di decisioni a favore di una concezione associativa rispetto a una movimentista.

      Infine, un terzo terreno riguarda i contenuti di una strategia riformista. Personalmente penso che il cuore stia nella democrazia economica e nella partecipazione. Come riuscire, nel lavoro cambiato, dentro ormai una società post-fordista, a offrire ai lavoratori nuove tutele in grado di determinare opportunità e stabilità alla frantumazione esasperata? Ma, anche, come affrontare il cruciale problema della emancipazione, della dignità, della visione non subalterna? Il vero salto di qualità sta nella convinzione profonda che il capitalismo può e deve essere riformato. Dopo gli scandali, la crisi del pensiero unico, degli stati nazionali, delle regole del gioco, il nodo è chiaro e riguarda la governance. I diritti politici (voto, diritti civili) non bastano se non si diffondono i diritti economici. Abbiamo fatto molta strada in questi ultimi anni in questa direzione, ma l’assunzione o meno di questa prospettiva influenza profondamente i comportamenti e le scelte del sindacato.

      In conclusione: nell’agenda delle priorità non vedo quella che storicamente fu definita la unità organica. Ma dalla anacronistica unità competitiva, al più attuale pluralismo convergente e autoregolamentato, lo spazio per una discussione aperta e sincera c’è tutto; anche nella prospettiva della evoluzione del quadro politico. E chi se ne intende sa che non è poco.

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