Una riforma che nasce nel Libro bianco |
di Filippo Menichino* *Avvocato del lavoro
Non è certo condivisibile l'invito di taluni esponenti politici e intellettuali di lasciar perdere ogni modifica sull'articolo 18, e intanto concentrarsi sulle riforme contenute nel Libro bianco. E ciò perché il predetto testo prevede una complessiva rivisitazione del nostro ordinamento giuridico del lavoro, innanzitutto estendendo livelli minimi di tutela in tutte le forme in cui si estrinseca l'attività lavorativa. Non ci sarebbero, in prospettiva, differenze di natura formale o definitoria tra lavoro autonomo e dipendente e la tutela accordata a quest'ultimo, necessariamente, dovrebbe essere "rimodulata". Sempre nel Libro bianco sono poi previsti strumenti a sostegno del reddito, della formazione continua, del sistema d'incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non ha, quindi, logica alcuna sedersi attorno ad un tavolo per procedere ad una riforma così profonda del rapporto di lavoro - che implica investimenti e risorse notevoli - quando una delle parti ha già dichiarato che, in nessun modo, potrà essere trattato il tema delle sanzioni (risarcimento o reintegro) previste in caso di licenziamento ingiustificato. Le organizzazioni sindacali e non pochi intellettuali riformisti continuano, in definitiva, a sostenere che la riforma dell'articolo 18 non è inserita nel Libro bianco. In realtà è ovvio che, in un testo di natura programmatica, non vengano espressamente identificate soluzioni precise dato che viene lasciato alle parti sociali ed al Governo il compito di definire nel dettaglio le riforme. Ma è altrettanto evidente che, allorquando si ipotizza a livello sistematico un nuovo assetto di "tutti i lavori" - e non solo di quello dipendente - non ha più senso attribuire soltanto ad alcuni una tutela forte, qual è quella dell'attuale articolo 18. Si legge, infatti, nel Libro bianco: «Il processo di riallineamento o rimodulazione delle caratteristiche del lavoro subordinato riguarderà anche il profilo della stabilità delle occupazioni per le quali si possono prevedere meccanismi di tipo risarcitorio» (1.3.5.). E questa - si badi bene - non è una posizione particolarmente originale se si pensa che anche il «Progetto di legge per uno Statuto dei lavori» del 1998, presentato dal Governo D'Alema, proponeva soluzioni molto più radicali rispetto a quelle su cui tanto si controverte in questi giorni. L'articolo 34 del predetto testo stabiliva infatti la non applicazione dell'articolo 18 per i lavoratori alla prima esperienza di lavoro fino al compimento del trentaduesimo anno di età e per tutte le nuove assunzioni effettuate entro il 1999 per i primi due anni di lavoro nel Sud Italia. E pure il disegno di legge sulla disciplina dei licenziamenti del marzo 2000, presentato da Tiziano Treu ed altri, osava non poco ipotizzando, in caso di licenziamento illegittimo, la reintegrazione o il risarcimento del danno, a discrezione del giudice e non del lavoratore, come attualmente prevede lo stesso articolo 18. Insomma, ogni giorno di più, è chiaro che la riforma dell'articolo 18 porterebbe senz'altro benefici alle aziende che potrebbero in tal modo allocare meglio le loro risorse, a prescindere dal fatto che ci sia la piena occupazione in molte regioni del Nord. Così come i lavoratori più qualificati avrebbero maggiori possibilità di guadagno ed occupazione e si potrebbero altresì, predeterminando l'entità del risarcimento, evitare soluzioni inique ed aberranti collegate alla durata dei processi. E non si dimentichi, anche, che la pratica giudiziale e stragiudiziale dimostra come l'istituto del reintegro trovi un'applicazione assolutamente residuale, dato che i lavoratori optano quasi sempre per un'indennità di natura patrimoniale. Non si può ignorare, neppure, che la riforma in questione non inciderebbe in alcun modo sui diritti di coloro che attualmente sono occupati che già godono dell'istituto della reintegrazione. Tuttavia, è chiaro anche che alcune fasce deboli del mercato del lavoro si troverebbero penalizzate, qualora dovesse essere realizzata siffatta riforma senza rafforzare contestualmente alcuni ammortizzatori sociali quali l'indennità di disoccupazione, la formazione permanente ed un sistema di collocamento efficiente. Il problema è che queste ultime misure sono onerose (si ipotizza cinque miliardi di euro a regime) ed il ministro Tremonti non sembra troppo entusiasta di inserirle nell'ambito del prossimo Dpef. D'altra parte, quasi tutti gli economisti ritengono che una rigidità in "uscita" si traduca in una rigidità "in entrata" (la metafora - assai efficace - della cosiddetta "cittadella del lavoro" non è stata certo coniata da esponenti di questa maggioranza di governo...). Il quadro, pertanto, richiede giocoforza di ripiegare, almeno in un primo momento, su riforme - tra l'altro sperimentali - meno "tecniche" e di portata complessivamente inferiore. Si tratta, in buona sostanza, di riforme - pure queste progettate dal gruppo di studio che gravitava intorno a Marco Biagi - il cui iter è iniziato da pochi giorni avanti la commissione Lavoro del Senato, che hanno il vantaggio di riguardare, per la parte relativa al contratto a tempo determinato, soltanto un'area limitata, il Mezzogiorno, e di non avere natura definitiva. Nell'ottica di una necessaria riforma del mercato è certamente più auspicabile sperimentare che lasciare le cose come stanno. E se vi è un pericolo di "dializzazione" del mercato, mediante l'uso distorto dell'istituto del contratto a tempo determinato (circostanza alla quale non credo), ebbene, il sindacato faccia la sua parte, piuttosto che trincerarsi dietro un'antistorica barricata che non ha precedenti in Europa.
Giovedí 11 Aprile 2002
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